La stagione fallimentare dei Golden State Warriors

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Il 2023/2024 dei Warriors si è conclusa nella notte tra martedì 16 e mercoledì 17 aprile a causa della sconfitta 118-94 contro i Sacramento Kings nel primo turno dei play-in della Western Conference. Un risultato ampiamente negativo per chi, negli ultimi 10 anni, ha dominato l’NBA vincendo quattro anelli e raggiungendo sei finali.

La stagione di Golden State, paradossalmente, sembrava iniziata con ottime prospettive. Grazie a sei vittorie nelle prime otto partite i Dubs davano l’idea di essersi lasciati alle spalle l’eliminazione contro i Lakers in semifinale di conference ed avevano illuso di poter puntare nuovamente al titolo dopo il successo ottenuto nel 2022. Ben presto, però, la musica è negativamente cambiata, e i Warriors si sono presentati con un anonimo record di 15-14 al Christmas Day. Da lì in avanti, nonostante un ottimo filone di vittorie tra febbraio e marzo, la franchigia di San Francisco ha continuato ad oscillare tra 8° e 10° posto fino alla fine della regular season, non dando mai la reale impressione né di poter puntare all’accesso diretto ai playoff né di poter rischiare il sorpasso per mano di Houston o Utah. Tuttavia, acquisita la possibilità  di strappare un biglietto per la post-season, i Warriors si sono presentati al Golden 1 Center di Sacramento subendo una delle peggiori sconfitte della loro già negativa stagione, alzando bandiera bianca contro dei Kings più attenti, fisici, ordinati ed intensi.
Che l’egemonia conseguita nel lustro 2015-2019 non fosse ripetibile era ampiamente pronosticabile per via del minore arsenale di Golden State e per una maggior competitività della lega, ma, dalla squadra che spende di più in luxury tax dell’intero campionato nordamericano, era lecito attendersi dei risultati migliori. Dietro alla debacle di Stephen Curry e compagni ci sono varie ragioni e diversi colpevoli, che comprendono da un lato i membri del nucleo vincente e dall’altro vari componenti tecnici e dirigenziali. Pur senza attribuire a nessuno una porzione maggiore o minore di responsabilità, è corretto evidenziare quali sono state le lacune più profonde di questa pessima versione cestistica dei californiani.

  • KLAY THOMPSON

Klay Thompson rappresenta la prima grande delusione della stagione di Golden State, confermando la scarsa affidabilità già emersa durante la scorsa post-season, soprattutto al secondo turno contro i Los Angeles Lakers. Il n.11 dei Warriors sembra aver perso le speranze di poter tornare ai livelli del passato, subendo un contraccolpo tanto fisico quanto psicologico dovuto all’infortunio al crociato del 2019 e a quello al tendine d’Achille del 2020. Il rendimento di Thompson in questa stagione è stato a dir poco altalenante, a tal punto da rendersi protagonista sia di prestazioni da 32 punti o 7 triple sia di partite in cui ha tirato con un modesto 1/11 dal campo. La ciliegina sulla torta si è poi vista nel play-in contro i Kings, quando, nella notte più importante dell’anno, Klay ha messo a referto ben zero punti con 0/11 dal campo e 0/6 da tre.
Le medie finale della regular season recitano 17.9 punti a partita con il 43.2% dal campo e il 38.7 da dietro l’arco. Si tratta pur sempre di cifre discrete, soprattutto per chi è stato costretto a rimanere lontano dai campi da basket per due anni e mezzo, ma questo Klay Thompson non può aver fatto dormire sonni tranquilli ai componenti della Baia, soprattutto se considerando l’oneroso contratto del figlio di Mychal.

Il rendimento stagionale di Klay Thompson non giustifica il contratto da 43.2 milioni di dollari.
  • DRAYMOND GREEN

Il nativo di Saginaw è stato allo stesso tempo sia un grande vantaggio sia un enorme problema. In quei pochi periodi positivi di Golden State, Draymond Green ha dimostrato che, se riesce a tenere a bada le emozioni e ad auto-controllarsi, sa ancora essere un giocatore di alto livello, capace di spostare gli equilibri del team e centralizzare il sistema su di sé. Tutto ciò, però, per gran parte della regular season, è stato inesistente, soprattutto perché, per via di comportamenti infantili ed inspiegabili, il quattro volte campione NBA ha saltato ben 28 partite. La doppia squalifica legata agli episodi con Gobert e Nurkic non ha soltanto privato i Warriors di un cestista su cui Kerr aveva basato il proprio gioco, ma ha anche dato nuovo ossigeno a quelle tensioni che, dopo lo scontro di un anno fa con Jordan Poole, sembravano essere diminuite. Green, invece, in questo 2023-2024 ha ricordato a tutti il suo profilo da dottor Jekyll e Mr. Hyde, un po’ come quando si fece squalificare in gara-5 alle Finals contro i Cleveland Cavaliers per poi mettere a referto uno storico 32-15-9 in gara-7. 

Draymond Green coinvolto nell’episodio violento contro Rudy Gobert. Gli costerà una squalifica di cinque partite.
  • STEVE KERR

Steve Kerr è sempre stato uno dei punti fermi a San Francisco. Eppure, colui che ha reso Golden State uno spartito improvvisato, quest’anno è stato vittima della sua stessa creazione. Un dato emblematico è infatti rappresentato dalle 27 diverse lineup utilizzate dal coach dei Warriors, un numero estremamente superiore rispetto a quello di diverse franchigie solide ed assodate della Western Conference come gli Oklahoma City Thunder (12), i Minnesota T’Wolves (13) o i Denver Nuggets (14). Soltanto squadre profondamente rimaneggiate mediante le trade o bersagliate da problemi fisici sono riuscite a togliere questo non invidiabile primato ai Dubs, ma, nonostante ciò, c’è chi, come i New York Knicks, pur rientrando in quest’ultima categoria, si è fermato a 19, e chi, gli Indiana Pacers, a 26.

Avendo appurato ciò, si può facilmente intuire come il quintetto titolare di Golden State abbia subito continui e spesso incomprensibili rimaneggiamenti. Il già sopracitato Klay Thompson, nell’ultimo mese di stagione regolare, è prima stato relegato a sesto uomo per poi riappropriarsi del suo ruolo originario, così come avvenuto nei mesi precedenti con Chris Paul. Lo può confermare anche Jonathan Kuminga, a cui non sono bastati nemmeno i 18.7 punti a partita raccolti tra febbraio e marzo per convincere definitivamente Kerr a rinunciare ad Andrew Wiggins, il quale, nonostante le ripetute possibilità, si è dimostrato lontano dalle versione ammirata alle Finals contro i Boston Celtics. La stessa sorta ha colpito anche i due rookie, Trayce Jackson-Davis e soprattutto Brandin Podziemski, che, per altro, sono stati tra i pochi volti positivi della stagione. Infine, se Moses Moody non è entrato nelle grazie dell’ex compagno di squadra di Michael Jordan, lo stesso non si può dire per Dario Saric e Kevon Looney, ampiamente deludenti nonostante diversi minuti a loro disposizione.

Steve Kerr, head coach di Golden State e di Team USA, quest’anno si è trovato di fronte a diverse difficoltà.
  • PALLE PERSE E RIMONTE SUBITE

Al termine della regular season il record definitivo dei Warriors è 46-36. Tuttavia, sfruttando il periodo ipotetico dell’impossibilità, se Golden State non avesse perso le partite che conduceva con un vantaggio pari o superiore a 12 punti, il loro bilancio reciterebbe un dignitosissimo 58-24, superiore a quello dei Thunder, prima testa di serie ad Ovest. Per quanto un calcolo simile sia indubbiamente sterile ed approssimativo, è facile intuire come i californiani abbiano perso (più di) qualche partita di troppo, tra cui quelle contro i Kings nell’In-Season Tournament e contro i Clippers nella stagione regolare, gettando al vento dei vantaggi di rispettivamente 24 e 22 punti. Da questa radice nascono i canestri allo scadere di Jokic, Monk, George, James e Holmgren. E, andando a considerare soltanto questi esempi, il record diventerebbe un dignitoso 51-31, l’equivalente di quello dei Los Angeles Clippers, quarta forza della Western Conference.

Una delle cause di questi improvvisi e perentori cali di concentrazione è senza dubbio rappresentata dalle palle perse, da anni tallone d’Achille dei Warriors che hanno chiuso la stagione all’8° posizione della lega per turnover commessi. Se si restringe il cerchio e si considerando soltanto le franchigie con un record superiore allo 0.500, ecco che soltanto Phoenix Suns ed Orlando Magic vantano un dato peggiore rispetto rispetto a Stephen Curry e compagni, i quali tante volte cadono vittime di loro stessi nei momenti in cui la partita appare ormai congelata.

Il buzzer beater di Nikola Jokic da oltre 12 metri in Warriors-Nuggets, partita in cui Golden State ha toccato un vantaggio di 18 punti nel quarto periodo.
  • SCELTE DIRIGENZIALI

Golden State ha commesso dei gravi errori anche a livello dirigenziale, sbagliando a muoversi nelle trade e a livello contrattuale. Se, durante la off-season, scambiare Jordan Poole è stata una mossa ineccepibile – confermata poi dallo scarso rendimento mostrato a Washington – ottenere in cambio Chris Paul non ha portato gli effetti sperati, tant’è vero che, secondo quanto riportato da HoopsHype, il playmaker dei Warriors guadagna 22.3 milioni di dollari in più rispetto al suo reale valore, stimato a 8.5. Oltre al prodotto di Wake Forest, anche Thompson percepisce un salario che supera nettamente le prestazioni mostrate in campo, con una differenza che arriva addirittura a toccare i 26.2 milioni di dollari. Il caso di Klay, poi, risulta più complicato rispetto a quello di CP3, perché per tutto l’anno non ha mai saputo – e non sa tuttora – se nel 2025 giocherà con i Warriors o se, per la prima volta in carriera, cambierà maglia. Una cosa è certa: a San Francisco non possono permettersi un’estensione alle cifre attuali (43.2 milioni), sia per quanto dimostrato sia per l’onerosa luxury tax (188.2 milioni) pagata nel corso della stagione.

Risulta altresì incomprensibile la scelta di Mike Dunleavy di non mettere mano al roster sfruttando le trade, preferendo dunque proseguire con un nucleo che già da diverse settimane aveva palesato evidenti difficoltà. Anche i Lakers, aventi un record simile, hanno sposato la stessa filosofia di pensiero, con la sostanziale differenza che nei mesi precedenti avevano raggiunto la finale della Western Conference e vinto la prima edizione dell’In-Season Tournament.

Mike Dunleavy, general manager dei Golden State Warriors da giugno 2023.

A Golden State non mancano le basi per ricominciare a costruire e poter tornare competitiva nei prossimi anni. Podziemski, Kuminga, Moody e Jackson-Davis sono, oltre che giocatori futuribili, potenziali pedine di scambio per cambiare il volto del roster e dare nuovamente vivacità alla franchigia. A San Francisco sono però chiamati ad una decisione urgente e complicata: mettere mano alla squadra e sfruttare le ultime stagioni ad alto livello di Stephen Curry o, come fatto dai San Antonio Spurs con Duncan, Parker e Ginobili, aspettare il definitivo declino dei Big Three per poi ripartire con un nuovo progetto. I prossimi mesi ci forniranno indicazioni importanti.

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