
Bearzot ne sapeva una più di tutti. Ma in Italia lo si è capito troppo tardi. L’avventura del Vecio come commissario tecnico della nostra nazionale è un vero e proprio saliscendi di emozioni contrastanti, che, contro tutto e tutti, lo ha consegnato alla leggenda del nostro calcio.
Bearzot non piaceva. Presto finí nell’occhio del ciclone. Dopo i mondiali del 78 conclusi al quarto posto l’astio nei suoi confronti raggiunse il suo apice, tra amichevoli scialbe e il brutto europeo dell’80. Poi, il difficile cammino verso i mondiali dell’82. Le critiche insistenti di chi proprio non sopportava quell’uomo tutto d’un pezzo, pieno di idee, testardo, nel suo piccolo rivoluzionario. Lui ha fatto esordire due giovani Paolo Rossi e Antonio Cabrini nel ’78, lui ha lanciato Scirea, lui ci provava in qualunque modo per creare un sistema di gioco efficace ma all’avanguardia. Ma in Italia, lo sappiamo, non va mai bene niente: si vuole tutto e subito. È un attimo finire schiacciati dalle critiche più insistenti, affossati dal malcontento generale.
Nonostante questo, Bearzot e la sua iconica pipa una soluzione la trovavano sempre. Anche ai mondiali dell’82, iniziati con quei tre pareggi che sapevano tanto di resa. Tre pareggi che hanno intensificato i dubbi sull’operato del friulano. Poi, il silenzio stampa prolungato, guidato da Zoff, i gol di Paolo Rossi, le sgaloppate di Tardelli; Oriali, Altobelli, Scirea, Cabrini, Collovati, Bergomi, Graziani, Conti, Gentile, Bergomi. Un gruppo solido, forgiato a meraviglia dal genio bistrattato di Enzo Bearzot. Che ha incartato l’Argentina e fatto piangere il Brasile, per arrivare lì, in cima al mondo e prendersi tutto. In un estate indimenticabile, storica, epica, che ha fatto salire tutti sul carro, e che ha definito una volta per tutte la grandezza del Vecio. Odiato e poi ipocritamente elogiato, come solo i migliori.


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