La mattina del 10 Dicembre di due anni fa, un Italia infreddolita e paralizzata dal COVID, si svegliava con un tremenda notizia. Paolo Rossi, idolo di una generazione e simbolo di un movimento che ormai non c’è più, se n’è andato a 64 anni. Era malato da tempo, ma nessuno lo sapeva, nemmeno gli amici di sempre.
Paolo Rossi, pratese di nascita e di famiglia, all’età di cinque anni inizia a giocare a calcio nel Santa Lucia (dove, quasi trent’anni dopo, cresceranno Bobo Vieri e Alino Diamanti), a 11 passa all’Ambrosiana e a 12 alla Cattolica Virtus, una delle migliori squadre giovanili, con sede a Firenze.
Dopo quattro anni di puro divertimento, nel 1972, a sedici anni, a casa Rossi bussa Italo Allodi, direttore sportivo della Juventus, già all’epoca figura di spicco del calcio italiano.
Si presenta con quattordici milioni e mezzo di lire e il giovane Paolo lascia Prato per andare a Torino.
In successivi quattro anni sono difficili, costellati di infortuni e da uno scarsissimo impiego in prima squadra. Non trova spazio nemmeno al Como, dove trascorre in prestito la stagione 1975-76, giocando appena sei partite.
La svolta arriva nel 1976, dopo che la Juventus lo cede in compartecipazione al Vicenza. In Serie B, Paolo Rossi segna 21 reti e il Lanerossi vince il campionato. La Juventus però, gli preferisce Virdis e l’allora proprietario Giuseppe Farina gli alza l’ingaggio fino a 50 milioni pur di tenerlo. Il primo anno da titolare di Rossi in A coincide con la stagione dei mondiali. Per conquistare un posto fra i 23 che andranno in Argentino bisogna far colpo su Bearzot, quindi serve una grande stagione.

Paolo risponde presente: 24 gol alla prima, vera, stagione in massima serie e pass per Argentina 78 staccato. Lui, che prima del mondiale aveva collezionato soltanto due presenze, è la punta titolare della nazionale insieme ad una leggenda del calcio italiano, Roberto Bettega.
A 22 anni, Paolo Rossi ha l’occasione perfetta per mettersi in mostra e lo fa nel miglior modo possibile: gol all’esordio contro la Francia, gol alla seconda contro l’Ungheria e assist a Bettega contro l’Argentina. Gli Azzurri volano in cima al girone, ma durante la seconda fase a gruppi, l’Italia s’inceppa. Prima 0-0 con la Germania Ovest, poi vinciamo 1-0 contro l’Austria (segna, ovviamente, Rossi) ma perdiamo 2-1 l’ultima con gli Olandesi. Perdiamo anche la finalina 3-4 posto col Brasile, ma nonostante la delusione per un mondiale alla portata, l’Italia ha scoperto Paolo Rossi.

Tornato dai mondiali, il Lanerossi non riesce a strappare l’accordo con la Juventus, quindi si va alle buste. Il presidente Farina offre ben 2 miliardi e 612 milioni e riesce ad accaparrarsi il cartellino del giovane talento in rampa di lancio.
La stagione 1978-1979 non va secondo le aspettative: un infortunio al ginocchio lo tiene fermo per un po’ e il Vicenza, arrivato secondo l’anno prima, sprofonda in B, nonostante i quindici gol di Rossi.
Col LR retrocesso, Giussy Farina cede Paolo al Perugia.
L’acquisto del classe 1956 da parte dei Grifoni segna uno spartiacque nella storia del calcio italiano. Per finanziare l’acquisto del centravanti del Vicenza, il presidente Franco D’Attoma sigla una sponsorizzazione col gruppo Buitoni-Perugina, che paga 400 milioni per mettere il logo del pastificio Ponte sulle maglie dei biancorossi. È il primo caso di sponsorizzazione non tecnica nella storia della Serie A.
L’anno a Perugia è un ulteriore step di crescita, Paolo gioca 28 partite e segna 13 gol, soltanto 3 in meno del capocannoniere Bettega.
Quando finalmente i problemi fisici erano alle spalle e aveva trovato continuità di rendimento, un incredibile scandalo si abbatte sul calcio italiano.
IL TOTONERO
Il 1 Marzo 1980 Alvaro Trinca, ristoratore, e Massimo Cruciani, suo fornitore di ortofrutta, presentano un esposto alla procura contro 27 giocatori e 12 società di Serie A e B, sostenendo di essere stati truffati.
Tutto ebbe inizio nell’Ottobre del 79, quando Trinca e Cruciani decisero di far girare diversi milioni fra i giocatori al fine di truccare alcune partite. All’inizio il giro losco fa i suoi frutti, ma ben presto le promesse dei calciatori vengono meno e i due si ritrovano con svariati milioni di lire andati in fumo. E fu così che per recuperare i soldi persi decisero di affidarsi alla procura.
Venti giorni dopo, durante la consueta puntata domenicale di 90esimo minuto, la Guardia di Finanza irrompe negli stadi e arresta 11 calciatori e un presidente. Nei giorni successivi, altre decine di calciatori finirono nell’occhio del ciclone e fra questi, anche Paolo Rossi.
Si va dunque a processo e quindi piovono squalifiche. 3 anni a Rossi, radiati Albertosi e Wilson, 5 anni a Della Martira, 1 anno e 6 mesi a Giordano e Manfredonia, assolto Antognoni.

Ribalta tutto la sentenza d’appello: 2 anni a Rossi, 5 anni a Della Martira, 4 ad Albertosi, 3 anni a Wilson, 3 anni e 6 mesi a Giordano e Manfredonia.
I tre anni, poi diventati due, mettono a serio rischio la partecipazione di Rossi al Mondiale di Spagna, in programma nell’estate 1982.
Grazie alla sentenza d’appello resta ancora uno spiraglio per vedere Paolo Rossi a Spagna 82, ma le speranze sono ridotte all’osso.
Con Paolo fuori dai giochi, la scena la prende Roberto Pruzzo, centravanti della Roma, capocannoniere per due volte di fila, nel 1981 e nel 1982, con 18 e 15 gol.
Nel mentre, Rossi, da sempre proclamatosi innocente, finisce per odiare il calcio, che gli ha dato tanto ma gli ha anche tolto tutto.
Al processo racconta la sua versione, ma i giudici non gli credono. E proprio perché è convinto della propria innocenza che non riesce a darsi pace.
Quando Paolo tocca il fondo, qualcuno gli tende una mano per salvarlo. Squilla un telefono a casa Rossi, è Giampiero Boniperti, presidente della Juventus. “Paolo, perché non vieni con noi in ritiro?” E Paolo, che ovviamente non può dire di no, si sente di nuovo un calciatore, anche se alla fine della squalifica mancano ancora più di dodici mesi.
E qui subentra Bearzot.
È la mattina del 14 Novembre 1981, mancano sette mesi al mondiale. Sul campo centrale del centro sportivo Combi è in corso la rifinitura della nazionale, mentre su uno dei campi secondari c’è un amichevole interna della Juventus: la primavera sfida coloro che giocano in prima squadra ma non sono in nazionale.
A partitella finita, un uomo sulla cinquantina con la sua fedele pipa, si avvicina a Paolo Rossi, centravanti di quel che resta della Juve.
L’uomo con la pipa è Enzo Bearzot, allenatore della Nazionale e Rossi è il motivo per cui è lì.
Il Vecio lo guarda, sa che anche se non gioca da due anni, la testa è ancora fresca e basta poco per recuperarlo, anche se il fisico non c’é. “Paolo, ci sei? Perché se ci sei, tu sei il mio centravanti al mondiale”. Paolo è incredulo.
6 mesi dopo, quando escono i 23 che vanno in Spagna, Pruzzo non c’é, Rossi si. Gli altri compagni di reparto sono l’infaticabile Ciccio Graziani, che partirà titolare insieme a Rossi, Spillo Altobelli, pronto a subentrare, e Franco Selvaggi che sa già che non giocherà.
Bearzot è innamorato di Paolo Rossi e sa che lui gli fará vincere il mondiale. Non convoca Pruzzo perché una volta entrato si prenderebbe la maglia da titolare, che spetta a Rossi per riconoscenza.

Gli azzurri partono per il mondiale in un clima surreale, con la stampa schierata contro e con lo spettro Totonero che ancora veleggia sul calcio italiano. L’Italia è nel primo girone, con Polonia, Perù e Camerun.
Debuttiamo con la Polonia di Boniek, 0-0.
Rossi, che nel frattempo è rientrato dalla squalifica giusto per tre partite, parte titolare e ovviamente non gioca chissà quanto bene.
Quattro giorni dopo, sempre a Vigo, affrontiamo il Perù.
Andiamo avanti con un gran gol Bruno Conti e resistiamo fino al minuto 83 quando Rubén Diaz, con una discreta dose di fortuna, pareggia. Rossi, ancora una volta, impalpabile.
Col Camerun non va diversamente: segna Graziani, ma un minuto dopo M’Bida pareggia.
Passiamo per il rotto della cuffia per aver segnato un gol in più del Camerun e nella seconda fase a gironi finiamo nel gruppo di Barcellona, con Argentina e Brasile.
Le speranze di passare sono meno di zero.
Ecco che però, quando il gioco si fa duro, l’Italia comincia a giocare.
Nel tardo pomeriggio del 29 Giugno, allo stadio Sarriá di Barcellona, casa dell’Espanyol, si gioca Italia Argentina, remake del 1978, ma stavolta loro hanno un ventiduenne clamorosamente forte, tale Diego Armando Maradona. Per l’occasione, il Vecio lo affida a Claudio Gentile.
“Claudio, quanti sono i comandamenti?”
“10 Mister”
“No, sbagliato, sono undici. Tu non lo devi far girare. Perché se Maradona di punta è finita.”
Gentile, che è abituato a prendersi carico dell’avversario più pericoloso, cancella Maradona dalla partita.

L’Italia che scende in campo con l’Argentina non è nemmeno lontana parente di quella del girone. All’improvviso, siamo diventati fortissimi. Segnano Tardelli e Cabrini, è una grande Italia, ma Paolo Rossi ancora non si vede. Gioca praticamente tutta la partita, ma non segna neanche stavolta.
Adesso c’è il Brasile, che ha due risultati su tre a suo favore.
HOMBRE DEL PARTIDO
5 Luglio, stesso stadio, stesso orario, stesso caldo infernale.
L’arbitro Klein, un israeliano di ventennale esperienza, fischia l’inizio alle 17:15.
Passano appena 5 minuti quando Cabrini spara uno dei suoi cross, il pallone attraversa tutta l’area e finisce preciso sulla testa del numero 20, Paolo Rossi.
Stavolta, quel pallone, non se lo fa sfuggire.
1-0.

La Seleção però, non perdona e al 12esimo, Socrates pareggia.
È vero, a loro basterebbe il pareggio, ma accontentarsi non è nel loro DNA, quindi tutti all’attacco. Ma l’incredibile fiducia nei loro mezzi, a metà primo tempo li tradisce. Su banalissimo passaggio orizzontale di Cerezo a metà tra Júnior e Falcão s’infila sempre lui, il ragazzo con la 20. Porta palla per cinque o sei metri, destro secco, forte, dal limite, gol. Italia avanti, di nuovo.
Bearzot alza il muro, gli Azzurri respingono tutti gli attacchi verdeoro, ma alla fine Falcão la mette di nuovo dentro. 2-2, venti minuti al termine. Il Brasile può gestire, ma come nel primo tempo, va contro la loro cultura.
L’inerzia è tutta dalla loro parte, ma il vecchio cuore azzurro non si arrende. A quindici dalla fine, succede l’impossibile. Calcio d’angolo di Bruno Conti deviato da Socrates sui piedi di Graziani che, senza pensarci due volte, tira dal limite. Un tiro non perfetto, probabilmente ad occhi chiusi, ma che finisce proprio in zona Rossi, che d’istinto ci mette la gamba.
Tripletta.
Italia batte Brasile 3-2. Paolo Rossi, fisico da ragionere, capelli spettinati e 20 sulla schiena, si è finalmente sbloccato. Sul tabellone luminoso del Sarrià compare una scritta che parla da sola: PAOLO ROSSI HOMBRE DEL PARTIDO.

PABLITO
Tre giorni dopo, in semifinale, c’è la Polonia, la stessa con cui abbiamo fatto 0-0 nella partita inaugurale, ma stavolta senza Boniek.
Per venti minuti siamo praticamente padroni del gioco, ma senza mai schiacciare la Polonia. È una supremazia paziente, di studio, in attesa del varco giusto.
Al ventiduesimo ecco l’occasione giusta: Antognoni pennella in mezzo una meravigliosa punizione, che finisce precisa sui piedi di Paolo Rossi, che da cinque metri non può sbagliare.
Quarto gol in due partite.
La partita si innervosisce, i polacchi iniziano a mirare alle gambe degli azzurri e il primo a farne le spese è Antognoni, che non riesce ad appoggiare il piede ed è costretto prima a uscire e poi a dire addio al mondiale. Al momento opportuno, a quindici dalla fine, l’Italia la chiude. Altobelli verticalizza per Conti, che vola sulla fascia come sempre ha fatto e sempre farà, Bruno la addomestica e scodella in mezzo, dove c’è sempre lui, sempre Paolo Rossi.
E Rossi, uomo d’area se ce n’è uno, non fa altro che inginocchiarsi per spingerla dentro di testa. 5 gol in due partite. Ormai è diventato Pablito, una sorta di eroe nazionale.

La banda di Bearzot stacca un biglietto di sola andata per Madrid.
NON CI PRENDONO PIÙ
Domenica 11 Luglio 1982, Stadio Santiago Bernabeu, Madrid. Ore 20.
L’Italia dei sogni, contro la solita Germania.
Noi dobbiamo fare a meno di Antognoni fin dall’inizio e dopo sette minuti Graziani alza bandiera bianca. Sulla carta il sostituto di Antognoni sarebbe Beppe Dossena, ma Bearzot, sempre pronto a stupire, schiera Beppe Bergomi, anni: 18, presenze in nazionale prima di Italia-Germania: 3.
Graziani, invece, esce per Altobelli.
Nel primo tempo la partita è bloccata, c’è l’impressione che nessuno possa batterci ma il gol non arriva. Abbiamo l’occasione per portarci avanti, ma dagli 11 metri Cabrini la manda fuori.
Le facce degli azzurri sono rilassate, serene, come se non fosse la finale mondiale ma una delle tante amichevoli estive. Sanno che il gol arriverà.
E il gol arriva al 57’: Rumenigge stende Oriali, Tardelli batte veloce la punizione, palla a Gentile che crossa in mezzo e indovinate chi spunta, praticamente dal nulla? Sì, sempre lui. Paolo Rossi. 1-0. Sesto gol di Pablito in tre partite.

Dodici minuti dopo, l’urlo più famoso del mondo. Tardelli riceve al limite da Scirea, se la aggiusta (male) col destro e col sinistro raddoppia.

Il Bernabeu, a maggioranza azzurra, esplode. A venti minuti dalla fine siamo sopra 2-0 contro una Germania inerme, che non riesce a reagire. Il sogno mondiale, che manca dal 1938, è ad un passo. Ma prima, c’è tempo anche per il 3-0.
Conti, che non si è fermato un attimo, vola ancora sulla fascia. Corre come il vento che soffia, direbbe Forrest Gump. Aspetta che arrivi Altobelli, gliela passa, Spillo salta Schumacher e la mette dentro.
In tribuna Pertini rompe il rigido protocollo presidenziale e si alza in piedi a festeggiare. Non ci prendono più.

Segnerà Breitner due minuti dopo, ma è tutto inutile. Siamo campioni del mondo per la terza volta.
Partiti senza speranze, con la stampa schierata contro e con una squadra su cui nessuno avrebbe scommesso cinque lire.
E invece, dopo un mese in terra spagnola, sull’aereo per Roma, oltre ai 23, a Bearzot e al suo staff, al presidente Pertini, c’è anche lei, splendida e lucente come non mai, sua maestà la Coppa del Mondo.

A fine anno, alla cerimonia del Pallone d’oro, è monopolio azzurro. Tra i primi quindici ci sono Tardelli, Scirea, Antognoni, Zoff e Bruno Conti. Ma davanti a tutti, con un distacco netto di 51 punti, c’è Pablito. L’uomo da 6 gol in tre partite, lui che fino a due mesi prima del mondiale era ancora squalificato, è (di nuovo) sul tetto del mondo.
È il trionfo del calcio italiano, quello figlio degli anni ‘70, giocato senza stranieri dopo la disfatta del mondiale inglese. È la vittoria di un intero movimento e soprattutto di un paese, che si lascia alle spalle i difficili anni di piombo, che ripone le armi nel cassetto e si riversa, unito, nelle piazze di tutta Italia per festeggiare un evento irripetibile.
Quel giorno di Luglio facesti piangere il Brasile, due anni fa hai fatto piangere tutti noi.

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