Era il 24 Novembre del 1938, quando, da qualche parte nel Tennessee, nasceva Oscar Palmer Robertson, il primo giocatore All-Around che la NBA ricordi, nonché il più grande rimpianto del leggendario Red Auberbach.
Big O nasce a Charlotte, una minuscola cittadina sulle colline del Tennesse, a un’ora di macchina sia dalla capitale Nashville, che dal confine settentrionale col Kentucky. All’età di circa dodici anni lascia il Sud per andare nel Midwest, più precisamente a Indianapolis. Lì, dal 1950 al 1955, frequenta la Crispus Attucks High School dove impara i fondamentali della pallacanestro e, dopo cinque anni, si sposta di nuovo, per andare al college.

L’università scelta è quella di Cincinnati, dove giocano i Bearcats. In NCCA, Oscar Robertson non gioca, domina. In tre stagioni abbatte quattordici record del campionato universitario, per tre volte è scoring leader e player of the year. Nei tre anni in Ohio mette su numeri impressionanti: quasi 34 punti di media, oltre 15 rimbalzi e 7 assist, giocando solo ed esclusivamente playmaker.
Finita l’esperienza a Cincinnati, l’ultimo step prima di sbarcare in NBA è il torneo olimpico. Roma 1960, le Olimpiadi del boom economico, del giovane Cassius Clay e di Abebe Bikila.
In quel Team USA, a condividere i compiti di regia con Big O, c’è un altra futura stella NBA, promesso sposo ai Los Angeles Lakers, tale Jerome Alan West detto Jerry.

Prima di andare a Roma a vincere l’oro, è tempo di Draft.
L’11 Aprile, come da tradizione a New York va in scena il draft NBA. La prima scelta è dei Cincinnati Royals (che venticinque anni dopo diventeranno gli attuali Sacramento Kings) che, ovviamente, scelgono il prodotto di casa. Alla due, tocca ai Lakers, che pescano l’altro grande talento di quest’annata, Jerry West.
Mettiamo da parte il Torneo olimpico, vinto come al solito dagli americani del college, e anche i Lakers di Jerry West, sui cui ci torneremo in futuro ma non oggi.
Nel 1960, quando Oscar Robertson sbarca in NBA, le “big guard” (ovvero play/guardie col fisico di un’ala come lo fu Magic o come lo è Doncic adesso) ancora non esistono.
L’archetipo del playmaker è Bob Cousy: un metro e ottantacinque per ottanta chili, decisamente smilzo, poco atletico e non un gran realizzatore, ma velocissimo e con una visione di gioco senza senso.
Big O cambia tutto. È uno scorer di primissimo livello grazie ad un mortifero jump dalla media e ai tanti giri in lunetta, distribuisce almeno una decina di assist a partita nonostante un regolamento decisamente più restrittivo rispetto a oggi, e per chiudere, è un ottimo rimbalzista.
È il primo playmaker atipico.
Grazie al fisico decisamente più grosso rispetto ai pari ruolo, sfrutta il mismatch e batte qualsiasi difensore. Se invece, a difendere c’è un lungo, lo batte sul primo passo grazie alla velocità di un vero playmaker.
In poche parole, la NBA degli anni ‘60 non è pronta per Oscar Palmer Robertson.
Durante il primo anno mette su dei numeri insensati che, ovviamente, nessuno è mai riuscito a replicare. Gioca 43 minuti di media, mette a segno 30 punti a sera insieme a 10,1 rimbalzi e 9,7 assist. Naturalmente il rookie of the year è roba sua.
L’anno da sophomore va ancora meglio: 30.8 punti, 12.5 rimbalzi e 11.4 assist. Cincinnati vince 43 partite e chiude al secondo posto ad Ovest (si, per l’NBA dell’epoca quello è Ovest) centrando un posto ai playoff. C’è un problema, anzi due. Si chiamano Jerry West ed Elgin Baylor, quindi Los Angeles Lakers e Bill Russell e Bob Cousy, quindi Boston Celtics.

La NBA degli anni ‘60 è un duopolio gialloviola e biancoverde. Gli anni passano, i protagonisti invecchiano, ma l’anello è sempre biancoverde.
I Royals sono ormai una presenza fissa ai playoff, ma non riescono ad andare oltre. È chiaro che con qualche piccolo aggiustamento la squadra potrebbe fare il salto di qualità, ma intanto il malcontento sale. Nel 1969 il leggendario Bill Russell ormai trentacinquenne, dice basta col basket e passa il testimone ad un ragazzo newyorkese (di Harlem, è bene precisare) con dei mezzi tecnici infiniti e delle leve sconfinate appena approdato a Milwaukee da University of California, chiamato Lew Alcindor.
La strada del tanto silenzioso quanto imponente ex UCLA, nel 1970, incrocia quella di Oscar Robertson.
Dopo dieci anni da record in quel di Cincinnati, varcata la soglia dei 30 e col tempo che stringe, decide di tentare l’ultimo assalto al titolo.
A 31 anni accetta di portare un ragazzo fino alla vetta. Va a Milwaukee, in una delle franchigie più giovani della NBA con un solo obiettivo: vincere, prima che sia troppo tardi.
In Wisconsin trova Lew Alcindor, l’uomo giusto al momento giusto. Big O, col suo trasferimento ai Bucks, segna un’era.
All’epoca la free agency come la conosciamo oggi, non era contemplata. I giocatori sono patrimonio della società ed è la dirigenza a scegliere il loro futuro. Oscar Robertson, sempre in prima linea quando si parla di diritti, porta la NBA in tribunale e si fa riconoscere il diritto di poter scegliere la sua prossima squadra.
E così, dopo aver vinto la causa contro il suo datore di lavoro, Big O accetta di fare il secondo violino pur di vincere il titolo e vola a Milwaukee.
Dopo dieci anni da leader indiscusso, decide di fare un passo indietro e di calarsi nella veste di regista offensivo, formando un’asse play-centro clamorosa. I Bucks sono reduci dalla prima post season della loro breve storia, chiusa ad un rispettabile secondo turno, ma l’aggiunta del nativo di Charlotte alza l’asticella.
Adesso la squadra da battere è Milwaukee, che arriva ai playoff 1971 con un record di 66 vinte e 16 perse. Dopo aver steso i San Francisco Warriors e i Los Angeles Lakers, è il turno dei Baltimore Bullets, guidati anche loro da una coppia play-centro.

Oscar Robertson contro Earl “The Pearl” Monroe, Lew Alcindor contro Wes Unseld. Risultato 4-0, secco. Al secondo anno in NBA, ad appena 24 anni, colui che diventerà Kareem Abdul Jabbar è eletto MVP delle finals. Big O, a 33 anni, corona il sogno di una vita: diventare campione NBA.
Tre stagioni dopo, al termine di un’incredible serie finale persa solo a Gara 7 contro i Boston Celtics, dice basta. Dopo 26710 punti, 9887 assist e 181 triple doppie, Oscar Palmer Robertson lascia il basket giocato, spianando la strada ad un altro playmaker di stazza, all’epoca poco più che quindicenne e ancora alla Everett High School. Sì, è Magic Johnson, ma questa è un’altra storia.

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