
La scuola era finita, era di nuovo arrivata l’estate. Non esistevano gli smartphone e internet si apprestava a prendersi il palcoscenico. Io avevo 8 anni, e come tutti i bambini andavo a giocare a calcio all’oratorio, ad imitare i calciatori che si vedevano in TV. Si giocava con magliette prese alle bancarelle, le scarpe ormai consumate e il supertele. Come al solito veniva a prendermi mio padre per ora di cena, ma, quel giorno venne mia madre, il motivo? Mio padre era incollato alla televisione perché il Milan aveva acquistato un nuovo attaccante, e da lì a poco quest’ultimo diventò il mio più grande idolo.
Veniva dall’est, biondo, pacato e umile come pochi. Aveva scelto la maglia rossonera dopo aver vinto cinque campionati ucraini e tre coppe nazionali, aveva scelto la numero 7.
Era la stagione 98-99, l’anno del centenario, in panchina c’era Zaccheroni.
Ad oggi quell’anno è stato uno dei anni più rocamboleschi dell’ultimo ventennio, sì, perché il Milan vinse lo scudetto pur non essendo la favorita rimontando a sette giornate dal termine. Ma quella è un’altra storia.
Questa è la storia di uno degli attaccanti più forti e più completi della sua generazione, nonché uno dei più forti calciatori ucraini di tutti i tempi. Pallone d’oro nel 2004, inserito nella FIFA 100 lista dei 125 migliori calciatori viventi, 14 reti nei derby contro l’Inter, risultando il miglior marcatore della storia della stracittadina.
Nei sette anni al Milan vinse tutto, Scudetto, Champions League e Coppa Italia. Al suo primo anno in Italia vinse la classifica dei marcatori (solo Platini prima di lui riuscì in questa impresa).
Inutile ricordare i suoi gol, belli ma tanto pesanti come pochi, il gol al derby nella doppia sfida in Champions League, il rigore decisivo a Manchester contro la Juventus che varrà la sesta Champions League del Milan, l’incornata in finale di Supercoppa Europea, il gol scudetto contro la Roma dopo soli 6 minuti.
Sì, lui nelle partite decisive non mancava mai all’appuntamento.
Quell’attaccante tanto forte e tanto umile portava il nome di Andriy Shevchenko, e come cantava la Curva Sud: “Non è brasiliano però, che gol che fa, il fenomeno lasciatelo là, qui c’è Sheva..”
Perché lui non era un giocatore come gli altri.. Lui era il Re dell’est.

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