Se nasci a Deer Lodge, uno sperduto paesino del Montana nel cuore delle Montagne Rocciose, e non sei un Nativo Americano, hai sostanzialmente la vita già scritta, diventerai un pastore, ereditando molto probabilmente il lavoro di tuo padre. La famiglia Jackson è la classica famiglia di montagna: padre pastore e madre ministra di culto, con diversi figli.
Il piccolo Phil cresce fra i pascoli e fra la riserva di indiani presente in quella zona, venendo a contatto con pellerossa di tutte le età, ammirando la loro cultura e la loro simbologia.
Oltre ai nativi, si appassiona alla cultura zen e al basket. Si iscrive alla North Dakota University e di lì, al draft 1967 (quello di Earl Mornoe, Walt Frazier e Pat Riley) viene scelto dai New York Knicks con la diciassettesima pick. Phil è tutt’altro che un cattivo giocatore, non sarà Julius Erving, ma è un più che discreto comprimario, un’ala grande piena di energia, un ottimo difensore e un bravo rimbalzista, capace di ritagliarsi il suo spazio in uscita dalla panchina in quei bellissimi New York Knicks. Negli 11 anni passati nella Grande Mela, succede di tutto e, fra le altre cose, lui e gli altri compari si portano a casa due anelli.

Phil ha un problema: piuttosto che stare in palestra con gli altri, preferisce passare le giornate a Central Park leggendo libri e consumando marijuna e LSD. La sua carriera prosegue fra la Grande Mela e i New Jersey Nets, ma il suo nome viene praticamente snobbato da tutti. Troppo hippy, troppo anticonformista.
Nel 1985 Jerry Krause, general manager dei Chicago Bulls, lo chiama per affidargli un ruolo in panchina accanto a Stan Albeck.
Ecco: immaginatevi una banda di giornalisti in giacca e cravatta, un capo allenatore piuttosto conservatore e Phil Jackson in bermuda, sandali e perché no, anche una bella camicia a fiori anni sessanta. Fu così che, dopo aver girovagato qualche anno per l’america, finisce a Puerto Rico un paio d’anni per un’avventura che solo un visionario come lui può compiere.

Tornato dai Caraibi, viene richiamato da Jerry Krause per collaborare con Doug Collins e Tex Winter. Stavolta l’incontro va a buon fine e Phil diventa coach assistant ai Chicago Bulls.
I Bulls non sono una grande squadra, arrivano a malapena al secondo turno di playoff, ma hanno un diamante grezzo fra le mani: tale Michael Jeffrey Jordan. Phil, appena arrivato nella Windy City, rimane folgorato da Tex Winter e il suo Triangle Offense: una tattica basata sull’equidistanza fra i cinque in campo al fine di creare spazio per fare male agli avversari. Dopo due anni di apprendistato, una volta che Jordan ha raggiunto la maturità, gli viene finalmente affidata la panchina. L’Hippy da Deer Lodge è (ri)sbarcato in NBA, stavolta non come role player, ma per scrivere la storia.

I nuovi Bulls ruotano intorno a Jordan, aiutato dal suo scudiero, tale Scottie Pippen da Central Arkansas University. Nei primi due anni di rodaggio centrano le finali di conference, perse contro i Detroit Pistons di Isiah Thomas, Joe Dumars e Dennis Rodman, futuri campioni.
Phil e Tex devono lavorare su Jordan che, per quanto sia il giocatore più forte della lega, non nutre tutta questa grande fiducia nei suoi compagni. In poche parole, è lui il centro dell’attacco e nessuno gli può togliere la palla dalle mani.
Incredibilmente, dopo due anni di mental coaching, Michael inizia a fidarsi degli altri e la squadra inizia a girare come si deve, sempre rispettando il Triangolo.
Il 1991 è l’Anno Zero del Basket, l’anno in cui tutto cambia, l’anno che fa da spartiacque fra due ere.
Il 12 Giugno 1991 al Forum di Los Angeles, fortino dei Lakers, i Chicago Bulls guidati dai 32 punti di Pippen vincono il loro primo anello.Ne seguiranno altri due nei due anni successivi, prima contro i Portland Trail Blazers e poi contro i Phoenix Suns.
La storia la sapete, dopo il terzo titolo Jordan si ritira, Houston vince due anelli, poi torna MJ e i Bulls diventano un corazzata capace di vincere altri 3 anelli.

Dopo che Jerry Krause decise di smantellare i Bulls, Phil si prese un anno sabbatico, in cerca di nuovi stimoli. Nuovi stimoli che arrivano da Los Angeles, sponda Lakers. Se ai Bulls era chiamato a tirare fuori il meglio da His Airness, nella città degli Angeli deve tirare fuori il talento del giovane Kobe Bryant e creare l’alchimia perfetta col centro più dominante di sempre, Shaquille O’Neal. Ovviamente, per realizzare tutto ciò, Phil si porta dietro il suo mentore Tex Winter e il vice Frank Hamblen e ovviamente l’attacco a Triangolo.
Così come fece Jordan, anche Kobe iniziò a fidarsi di chi lo circonda.
I Lakers sono senza anello dai tempi di Magic Johnson e nel mentre hanno cambiato casa: abbandonando il Forum per il modernissimo Staples Center, inaugurato proprio all’arrivo di Coach Phil.
I gialloviola non hanno una brutta squadra ma è palese che manchi alchimia fra i giocatori, soprattutto fra Kobe e Shaq.
Phil però, non è uno che si arrende facilmente. Ogni screzio fra i giocatori viene cancellato e i Lakers volano a vincere il primo anello dopo dodici anni. Siccome Phil Jackson fa rima con three peat, i Lakers vincono sia nel 2001 che nel 2002.

Dopo tre titoli consecutivi, al quarto anno i suoi Lakers non vanno oltre il secondo turno, battuti dai San Antonio Spurs futuri campioni.
Nella free agency i Lakers firmano due super veterani per tornare a vincere immediatamente. Sono Gary “The Glove” Payton e Karl “The Mailman” Malone, che ormai non sono più superstar, ma dei giocatori più che validi.
A loro si unisce una vecchia conoscenza di Phil, tale Bryon Russell. Sí, quel Bryon Russell che aveva il compito di fermare MJ quella sera a Salt Lake City.
L’esperimento Superteam arriva fino alle finals ma crolla contro i Detroit Pistons con 8 anelli conquistati in 11 anni Phil dice basta.
Lascia l’NBA ma tempo un anno, al termine di una stagione fallimentare terminata senza playoff il presidentissimo Jerry Buss lo richiama. Phil non ci pensa un attimo e torna subito sulla panchina gialloviola.
L’hippy delle Montagne Rocciose è tornato, ma intorno a Kobe c’è poca roba.
Derek Fisher è andato a Utah, Shaq a Miami, Robert Horry a San Antonio.
La squadra va rifatta completamente intorno a Kobe.
Piano piano la squadra prende forma: il primo ad arrivare a L.A è Derek Fisher, di nuovo. Un anno dopo tocca a Pau Gasol, leader dei Memphis Grizzlies e della grande generazione Spagnola. Lamar Odom è già in casa, così come Saša Vujačić e Andrew Bynum. L’ultimo tassello, arrivato nell’estate del 2009 è Ron Artest, un tipo piuttosto bizzarro che meriterebbe di essere raccontato in separata sede.
Dopo due primi turni e una finale persa, i Lakers tornano ad essere i Lakers.
La mentalità vincente di Phil, la Mamba Mentaliy, la difesa di Ron Artest, i rimbalzi di Pau Gasol.
I Lakers non ne vincono uno, ma ben due di anelli, ovviamente consecutivi.
Nel 2009 strapazzano gli Orlando Magic di Dwight Howard e nel 2010, il titolo della leggenda, conquistato dopo 7 incredibili gare al cardiopalma contro i rivali di sempre, i Boston Celtics.

All’undicesimo anello, Phil Jackson si ritira definitivamente, lasciando l’NBA per entrare nella leggenda.


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