Per capire come siamo arrivati al 26 Luglio 1992, dobbiamo fare un passo indietro di circa 4 anni.
Bisogna tornare al 28 Settembre 1988, quando gli Stati Uniti, da sempre padroni del torneo olimpico di pallacanestro, affrontano l’Unione Sovietica.
Fino a quel momento, la Nazionale di pallacanestro degli Stati Uniti d’America, o come piace chiamarla a loro, Team USA, ha sempre vinto l’oro olimpico, tranne in due occasioni.
La prima è a Monaco di Baviera 1972, quando persero di un punto la finalissima contro i Sovietici, la seconda è a Mosca 1980, quando gli americani boicottarono tutta l’Olimpiade.
A Los Angeles 1984, guidati dal ventunenne prodotto di North Carolina di nome Michael Jeffrey Jordan, gli USA approfittano del contro-boicottaggio per vincere ancora una volta.
Chiarito il rapporto fra gli americani e il basket, torniamo nel 1988.
In quel pomeriggio di fine settembre, per la seconda volta in tutta la loro storia, gli USA perdono contro i Sovietici, stavolta in semifinale.

Due anni dopo, ai Mondiali, perdono ancora. Stavolta con la Jugoslavia.
Non è tollerabile che una nazionale gloriosa come quella a stelle e strisce non riesca ad andare oltre il terzo posto.
Ma se la sconfitta olimpica aveva acceso un campanello d’allarme, la battuta d’arresto con la Jugoslavia ha scatenato il panico.
È chiaro a tutti che le altre nazionali, olimpiade dopo olimpiade, mondiale dopo mondiale, hanno fatto incredibili passi avanti, schierando i migliori giocatori che il paese possa offrire. Mentre gli USA, per la prima volta, sono rimasti a guardare i progressi degli altri.
E qui, la FIBA, per la prima e forse unica volta, tende la mano alla NBA.
Vista la situazione, da quel momento la FIBA permetterà agli americani di portare i professionisti.
Basta collegiali di belle speranze, largo ai fenomeni.
Prima di tutto, c’è da scegliere un coach.
E la scelta ricade su Chuck Daly, bi-campione coi Detroit Pistons, che ha il compito di scegliere gli 11 fenomeni + 1 collegiale che andranno a Barcellona.
Ha l’imbarazzo della scelta. Vorrebbe portarli tutti, ma deve sceglierne solo 11.
I primi ad essere scelti sono:
Michael Jordan
Scottie Pippen
Clyde Drexler
Charles Barkley
John Stockton
Karl Malone
Chris Mullin
David Robinson
Patrick Ewing
A questi nove, ne vanno aggiunti altri 3. Il primo è Christian Laettner, da Duke University, ritenuto uno dei più grandi giocatori universitari di sempre.
Gli altri due sono due giocatori-bandiera, portati per quello che hanno fatto nei dieci anni precedenti. Tanto diversi, quanto iconici.
Ovviamente sono Larry Bird e Earvin Johnson, detto Magic.

Il grande escluso della spedizione olimpica è Isiah Thomas, uno dei primi 5 playmaker della storia, a cui Chuck Daly deve praticamente tutto.
Ma se Isiah è colui che ha fatto vincere due titoli consecutivi a Detroit, perché non c’è?
Semplicemente, il gruppo non lo vuole e Jordan su tutti.
Mike si ricorda delle Jordan Rules e di tutte le botte prese contro i suoi Detroit Pistons ed è convinto che la presenza di Isiah possa mettere a repentaglio l’armonia del gruppo.
Ma aspetta un attimo.
Magic Johnson? Ma non si era ritirato dopo la diagnosi dell’HIV?
Si, effettivamente si era ritirato a Novembre 1991, dopo che gli venne comunicata la sua sieropositività. Ma i tifosi non ci stanno e nelle votazioni per l’All Star Game 1992, il suo nome è in cima a tutti.

HIV o no, Magic ci deve essere.
Se ha giocato l’All Star Game e si è preso anche l’MVP, perché può andare alle Olimpiadi? Detto fatto, Magic parte insieme agli altri per la missione oro olimpico.
Tralasciamo il torneo di qualificazione, dove gli Americani mettono in piedi un autentico show, rifilando almeno 30 punti di distacco a chiunque si mettesse in mezzo tra loro e le Olimpiadi.
Guardo alla mia destra, c’è Michael Jordan… guardo alla mia sinistra, c’è Charles Barkley o Larry Bird … non sapevo a chi passare la palla!
Magic Johnson

Il 26 Luglio 1992, alle ore 16:30 spagnole, al Palau Municipal d’esports de Badalona, il Dream Team scende in campo per la prima partita del torneo olimpico. Di fronte c’è… l’Angola.
I malcapitati africani scendono in campo per chiedere foto e autografi o per scambiare due chiacchiere contro quei mostri sacri della pallacanestro, perché sanno che non c’è storia. Gli americani sanno che vinceranno, bisogna solo indovinare quanti punti metteranno a segno e quanti riusciranno a farne gli avversari.
Chuck Daly stabilisce le gerarchie: non ci sono titolari o riserve, tutti avranno il loro spazio durante tutto l’arco del torneo.
Oltre al Coach, a Barcellona vanno tre assistenti: Lenny Wilkens, vincitore del titolo del 1979 coi Seattle Supersonics e che 4 anni dopo, guiderà il Dream Team II ad Atlanta ‘96 ; P.J Carlesimo coach a Seton Hall University e Mike Krzyzewski coach dei Duke Blue Devils. Segnatevi questo nome perché ci tornerà utile una quindicina d’anni dopo, quando si dovrà costruire un altro Dream Team.
Contro l’Angola non c’è partita:
Charles Barkley ne mette 24, con 6 rimbalzi, 5 assist e 3 palle recuperate in appena ventidue minuti. A seguire Karl Malone che ne infila 19, poi seguono, in ordine di punti:
Patrick Ewing e Chris Mullin 11, Clyde Drexler e Michael Jordan 10 con OTTO palle recuperate, Larry Bird 9, Christian Laettner 7, Magic Johnson 6 con 10 assist (d’altronde, anche se non gioca da un anno, Magic è sempre Magic), Scottie Pippen 5, David Robison 4.
Una prova di forza spaventosa degli Stati Uniti, che segnano 116 punti tenendo l’Angola a soli 48.

Il Dream Team è arrivato e niente sarà più come prima.
24 ore dopo, a soccombere è la Croazia.
La grande Croazia di Drazen Petrović, Dino Radja e Toni Kukoč.
I tre moschettieri croati, insieme al gigante serbo Vlade Divac, erano l’asse portante dell’ultima grande Jugoslavia. Quell’ultima generazione d’oro che arriverà a vincere un mondiale e un europeo back to back.

La partita con la Croazia è una delle più equilibrate: finisce 103 a 70 per gli americani con un ventello a testa di Michael Jordan e Charles Barkley.
Scavalcano la doppia cifra anche Scottie Pippen, con 13, Clyde Drexler ne fa 12 come Karl Malone.
Altro giro, altra corsa, stavolta a cadere sotto i colpi a stelle strisce c’è la Germania.
Stavolta, il miglior marcatore è Larry Legend Bird, che nonostante i 36 anni e la schiena non particolarmente integra, vede ancora il canestro come pochi altri al mondo. In 21 minuti mette a segno 19 punti, recupera tre palloni e piazza anche due stoppate.

Seguono The Mailman con 18, Michael Jordan con 15 e DODICI assist (non male per uno che non nutre grande fiducia nei colleghi), Charles Barkley con 14 e Chris Mullin a 13.
Due giorni dopo aver abbattuto la Germania, tocca al Brasile.
Contro i verdeoro, Charles Barkley non ha pietà e fa le prove tecniche di MVP.
Nei 19 minuti in cui rimane sul parquet, esplode 30 punti con 12 tiri a bersaglio su 14 tentati. Nonostante paghi una decina di centimetri ai suoi pari ruolo, raccoglie anche 8 rimbalzi di cui 6 offensivi.

È onnipotente e, a differenza dei suoi colleghi, non è lì per divertirsi, ma è lì per vincere senza scherzare.
L’ultima partita del girone è contro la Spagna. No, ancora non ci sono Llull, il Chacho e i fratelli Gasol, questa Spagna è decisamente mediocre, tant’è che non riesce ad entrare nelle prime quattro del girone per accedere ai quarti di finale.
Andres Jimenez e Jordi Villacampa monopolizzano il pallone, si prendono rispettivamente 23 e 20 tiri ma non vanno oltre quota 23 e 15 punti.
Dall’altra parte del campo c’è il solito Charles Barkley, che ormai vuol vincere l’MVP del torneo.
Stavolta non si sforza nemmeno: vanno dentro 8 tiri su 12 che uniti ai due liberi fanno 20 punti.
A cui si aggiungono 6 rimbalzi e 4 assist.
Altri 6, ovvero Clyde Drexler, Patrick Ewing, Chris Mullin, Larry Bird, Michael Jordan e Scottie Pippen finiscono in doppia cifra giocando poco più di 20 minuti.
Stati Uniti 122, Spagna 81.
USA ai quarti, Spagna eliminata.
I prossimi a soccombere di fronte alla grandezza del Dream Team sono i boricua, ovvero i nativi di Puerto Rico.
Stavolta Chuck Daly mischia le carte in tavola e lascia spazio a chi, durante il torneo, ha giocato meno.
Chris Mullin è il miglior marcatore della squadra e della partita, col solito ventello d’ufficio. Segue The Admiral, con una prestazione… alla David Robinson. Il gigante degli Spurs in poco più di venti minuti mette a referto 14 punti, 7 rimbalzi, 2 recuperi e 2 stoppate.

Scottie e Magic, oltre a scollinare in doppia cifra, si divertono ad azionare i loro compagni a suon di assist. Nonostante le regole FIBA siano decisamente più stringenti sugli assist, lo scudiero di MJ e l’uomo dal sorriso più contagioso d’america mettono a referto 15 assist in due.
Serata da dimenticare, invece, per Michael Jordan che chiude con un brutto 1/11 dal campo.
Facciamo finta che quanto detto fin’ora non sia sufficiente a capire la grandezza di questa squadra: immaginate di avere a roster quello che, a furor di popolo, è considerato il miglior giocatore della storia che però inciampa nella classifica serata no e fa solo 4 punti.
Una sconfitta abbastanza larga direte voi. E invece no, perché quelli intorno sono forti quasi quanto lui e anche se His Airness sbaglia 10 tiri su 11, gli USA strapazzano Porto Rico per 115 a 77. È semifinale.
Semifinale che si gioca il 6 Agosto 1992, contro la grande potenza dell’est, la Lituania, alla prima olimpiade da non-sovietica.
La storia della Lituania è, per certi versi, simile a quella della Croazia.
Per quasi cinquant’anni praticamente non è esistita, soggiogata dal dominio sovietico.
Il nucleo centrale dell’Unione Sovietica campione olimpica a Seul è composto proprio da quattro lituani. Sono Arvydas Sabonis, un atipico gigante di 2,21 x 130kg che tratta il pallone come Larry Bird, Sarunas Marčiulionis, guardia dei Golden State Warriors, ovvero colui che ha portato lo eurostep in NBA prima che Manu Ginobili lo facesse diventare una consuetudine, Rimas Kurtinaitis, il terzo violino dotato di un incredibile tiro dalla lunga distanza, per certi versi atipico per l’epoca. Ai tre si aggiunge il veterano Valdemaras Chomičius, di ruolo playmaker, leggenda del Žalgiris Kaunas e realizzatore pazzesco.

Ai quarti contro il Brasile hanno segnato rispettivamente 32, 29 e 20 punti, ovvero 81 dei 114 totali, trascinando la squadra fino alla semifinale.
Stavolta però, ci sono gli USA, versione Dream Team.
Il Palau d’Esports è strapieno, per vedere non uno, ma ben due Dream Team all’opera.
Purtroppo, per i lituani, la versione opaca di MJ vista due giorni prima, è soltanto un lontano ricordo. Gioca come al solito ventidue minuti ma è onnipresente su due metà campo. In una mette 3 rimbalzi, 1 stoppata e 6 recuperi, nell’altra 21 punti e 4 assist.
Per un MJ che segna, c’è un Magic Johnson che inventa. Il leggendario numero 32 dei Lakers si diverte come ai tempi dello showtime e in ventuno minuti mette a referto 14 punti, 3 rimbalzi, 8 assist e 3 recuperi.

In doppia cifra vanno praticamente tutti tranne Pippen, Stockton e Laettner.
Dall’altra parte, i Big Three lituani mettono 43 dei 76 punti totali, ma tirando malissimo sia dentro che fuori l’arco. Marciulionis addirittura arriverà a perdere 7 palloni in poco più di mezz’ora. Sabonis gioca ventitré minuti, si prende 17 tiri ma ne mette soltanto 4. Non va meglio a Kurtinaitis, uno che in carriera ha viaggiato col 40% abbondante da 3, che viene limitato al 22%, con due sole triple a bersaglio su nove tentativi. Chomičius invece, tenta 5 tiri, tutti da 3, ma non ne segna nemmeno uno.
La partita con la Lituania è la vera prova di forza del Dream Team, che non sconfigge, ma distrugge, coloro che quattro anni prima negarono ai collegiali americani la possibilità di vincere l’oro olimpico.
Adesso resta solo un’ultima squadra da battere e questa è.. la Croazia, già affrontata nel girone e liquidata 103 a 70.
Ancora una volta, un Dream Team affronta l’altro.
La Jugoslavia è, da sempre, terra di pallacanestro. In Europa, probabilmente, nessuno vanta una tradizione cestistica come la loro, forse nemmeno noi italiani, nonostante per uno strano gioco del destino, due dei tre migliori giocatori di quella squadra giocano in Italia.
A Roma c’è il gigantesco Dino Radja, in quella Virtus targata Il Messaggero, capace di attirare anche campioni NBA come Michael Cooper e Rick Mahorn. Mentre a Treviso, gli spettatori del PalaVerde possono ammirare le strabilianti gesta dell’Airone di Spalato, quel Toni Kukoč che, meno di un anno dopo Barcellona 92, verrà chiamato da Phil Jackson per andare a vincere a Chicago.

I dodicimila presenti sugli spalti sanno di essere di fronte ad una partita tanto storica, quanto squilibrata.
Per quanto la Croazia sia la squadra più forte del pianeta, gli americani sono più forti di loro.
Non è solo una finale olimpica, è la fine di un’era. USA-Croazia è il canto del cigno dei due simboli della nuova NBA.
Se l’NBA è un fenomeno globale così come lo conosciamo oggi, dobbiamo dire grazie a Earvin Magic Johnson e Larry Legend Bird, i gemelli diversi. Larry e Magic sono stati per quasi quindici anni lo ying e lo yang, uno nero e l’altro bianco, uno col sorriso perennemente stampato in faccia e l’altro schivo e diffidente, ma soprattutto, uno il Laker per eccellenza, l’altro il Celtic per antonomasia.
Magic, che nonostante l’HIV è messo meglio di Larry, parte in quintetto. Con lui ci sono ovviamente Michael Jordan e Scottie Pippen, come ala grande Charles Barkley viene preferito a Karl Malone, mentre il centro è Patrick Ewing, uno dei più grandi della storia a non avere nemmeno un anello.
Dopo un inizio incoraggiante in cui la Croazia si trova col muso davanti, il Dream Team prende il largo.
MJ ancora una volta fa quello che vuole su entrambe le metà campo.
Da una parte mette il solito ventello, ma di fronte, in difesa, ha il Mozart dei canestri, ovvero Drazen Petrovič, che in quel momento è, forse, il miglior giocatore straniero di tutta l’NBA.
In 37 minuti giocati su 40, Drazen segna 24 punti, ma tirando 8 su 17 dal campo con 3/7 da 3 e perdendo ben 5 palloni.
Nonostante i 24 di Petrovič, i 23 di Dino Radja e i 16 di Toni Kukoč, decisamente meglio rispetto al primo incontro con quei mostri sacri, il Dream Team surclassa la Croazia.
In 7 finiscono in doppia cifra e in tutte le statistiche, dai tiri alle stoppate, gli Americani hanno la meglio.
Sono le 23:30 dell’8 Agosto 1992, il Dream Team è campione olimpico e Charles Barkley è l’MVP.

Un margine di vittoria di oltre 40 punti e zero time out chiamati.
Il Dream Team è arrivato a Barcellona con un unico obiettivo, ovvero quello di cancellare Seul 1988, e lo ha fatto nel migliore dei modi: dominando un torneo dal primo turno di qualificazione fino alla finale.
Si scrive Dream Team, si legge storia.

Lascia un commento