Se prendete la lista dei migliori realizzatori della storia della NBA e andate alla prima posizione, troverete un nome piuttosto particolare, per certi versi atipico. Il nome che guida tutti dall’altro è Kareem Abdul-Jabbar, al secolo Ferdinand Lewis Alcindor Jr, nato ad Harlem, il quartiere nero di New York, il 16 Aprile 1947.
L’America degli anni ‘60
Il ragazzo, in altezza, cresce a dismisura. A 14 anni è già sopra i due metri e, ovviamente, al liceo è la stella indiscussa della squadra di basket della Power Memorial Academy, scuola cattolica (e sottolineo, CATTOLICA) di New York. Vincono 71 partite consecutive e per tre volte di fila sono campioni del torneo New York City Catholic.
I risultati sportivi sono clamorosi, ma il clima, aldilà di Central Park, non è dei migliori.
Essere un nero, anzi un “colored” nell’america degli anni ‘60, non è una gran fortuna. Rischi la vita giorno e notte soltanto perché sei nero.
La tensione ad Harlem era perennemente alle stelle e il 16 Luglio 1964, quando il luogotenente Thomas Gilligan uccise il quindicenne disarmato James Powell, la situazione divenne incandescente. Due sere dopo, una manifestazione inizialmente pacifica degenerò in una guerriglia urbana fra i manifestanti e la polizia, con la città messa a ferro e fuoco. Quella sera, Lew Alcindor e milioni di altri ragazzi neri, iniziarono a prendere le distanze dal pacifismo arrembante professato da Martin Luther King, per abbracciare il Black Power, il movimento rivoluzionario di Malcolm X.
The Lew Alcindor Rule
Ma torniamo al basket: lo vogliono praticamente tutti i college d’america, da Est a Ovest, da Nord a Sud. Soprattutto nel Sud segregazionista, tantissime università avrebbero messo da parte le proprie convinzioni pur di avere Lew Alcindor in squadra, ma dopo aver vissuto per vent’anni da Harlem, la sua scelta ricade sulla University of California di Los Angeles, più semplicemente UCLA, una delle più prestigiose università d’america, situata ai piedi di Bel Air.
L’impatto di Lew Alcindor, nel frattempo diventato islamico, nella NCAA è qualcosa di mai visto prima: viaggia abbondantemente sopra i 20 punti e 10 rimbalzi a sera, senza contare le stoppate che compariranno nei tabellini soltanto nel 1973.

Ma l’arrivo del gigante di Harlem a UCLA combacia con l’istituzione di una regola piuttosto controversa da parte della NCAA: dal 1967 e per i successivi 10 anni, nessun collegiale potrà schiacciare.
Ufficialmente le schiacciate sono state abolite per prevenire il rischio di infortuni, ma tutti sono consapevoli del fatto che sia soltanto una scusa per contrastare lo strapotere emergente degli afroamericani.
Già, perché nel 1966 i Texas Western vincono la NCAA schierando un quintetto titolare totalmente afroamericano. E i giocatori che schiacciano di più, guarda caso, sono tutti neri.
La schiacciata era il marchio di fabbrica del movimento nero, era il gesto con cui gli atleti afroamericani esprimevano la loro ribellione, la loro lotta politica contro la classe dirigente rigorosamente bianca e spesso segregazionista.
Con la scusa degli infortuni, si cercò di limitare la crescente influenza che i cestisti neri, sia dentro che fuori dal campo, si stavano guadagnando.
“Fare di necessità virtù”
L’abolizione della schiacciata, però, non riuscì nel suo intento principale: quello di ostacolare il dominio di Lew Alcindor.
Non potendo più saltare in testa agli avversari, il ventenne di Harlem dovette fare di necessità virtù e si inventò un tiro praticamente impossibile da stoppare.
Nelle lunghe sessioni di allenamento nella palestra a UCLA, giorno dopo giorno, Lew Alcindor affinava la tecnica del suo nuovo movimento e quando, finalmente, si ritenne soddisfatto, lo mostrò al grande pubblico.
Per ribaltare a proprio favore una situazione sfavorevole, s’inventò il gancio cielo, sfruttando le sue lunghissime leve e il corpo piuttosto esile per essere un centro.
Il gancio cielo, o sky-hook che dir si voglia, non è altro che una variante del classico gancio già visto dappertutto, ma con un dettaglio non da poco: grazie ad una spinta incredibile, il pallone inizia la sua parabola verso la retina ad un’altezza superiore ai 305 centimetri del canestro, rendendo di fatto impossibile la stoppata. E se un braccio vola verso il cielo, l’altro serve a creare spazio fra il suo corpo e quello del malcapitato difensore.

Con un gancio cielo dopo l’altro, Lew Alcindor porta UCLA sul tetto d’America per tre volte consecutive perdendo appena due partite in tre stagioni.
Dopo il titolo NCAA del 1969, per lui si aprirono le porte della NBA e niente sarà come prima.
Milwaukee, 1971.
Quando, sul finire della stagione 1968-1969, ai Milwaukee Bucks viene assegnata la prima scelta assoluta al draft, la dirigenza esplode di gioia. Avere la prima scelta di quel draft significava mettere il futuro in cassaforte, perché avere Lew Alcindor in squadra avrebbe garantito un futuro roseo a tutte le 14 franchigie di allora.
I Bucks sono entrati in NBA dodici mesi prima e sono reduci da una stagione da sole 27 vittorie, ma l’arrivo di Alcindor li trasforma immediatamente in una contender.
Chiudono la stagione 1969-70 col secondo miglior record della lega, Alcindor vince il rookie of the year con numeri da All Star Game (28.8 punti, 14.5 rimbalzi e 4.1 assist in 82 partite), ma ai playoff non vanno oltre il secondo turno, sconfitti dai New York Knicks futuri campioni.
I piani alti della società capiscono che per vincere, bisogna affiancare un grande creator all’altissimo newyorkese, uno che veda spazi dove non ci sono, che sappia sfruttare ogni minimo movimento del suo lungo. I dirigenti dei Bucks bussano alla porta dei Cincinnati Royals e si portano a casa uno dei playmaker più forti della lega, Oscar Robertson, l’unico capace di finire una stagione in tripla doppia di media fino all’arrivo di Westbrook.

La fantasia di Oscar Robertson unita alla spietata vena realizzativa di Lew Alcindor, la sera del 30 Aprile 1971 iscrive Milwaukee all’albo d’oro dei vincitori della NBA.
Ma quel titolo, con annesso MVP delle Finals, conquistato a nemmeno 24 anni, sarà solo il punto di partenza per diventare il miglior marcatore della storia della Regular Season.
Da quel giorno però, il mondo imparerà a chiamarlo diversamente. Non sarà più Ferdinand Lewis Alcindor Jr, come hanno voluto i suoi genitori, ma Kareem Abdul Jabbar, che in arabo significa qualcosa tipo “nobile servo dell’onnipotente”.
Los Angeles, 1980, 1982, 1985, 1987, 1988.
Milwaukee tornerà alle Finals anche nel 1974, ma stavolta è Boston, guidata dal veterano John Havlicek, ad avere la meglio in 7 gare.
Gara 7 del 1974 è anche l’ultima partita in carriera di Oscar Robertson che a 36 anni decide di riporre le scarpe nell’armadietto.
Milwaukee senza il suo creator, si sgretola. Ai Bucks non basta la solita stagione da 30+14 di Kareem per arrivare ai playoff.
Nell’aria si diffonde l’odore di addio e, ovviamente, alla finestra ci sono i Lakers che da quando Wilt si è ritirato, hanno perso diversi centimetri sotto canestro.
Il 16 Giugno 1975 Elmore Smith, Brian Winters, Junior Bridgeman e Dave Meyers vengono impacchettati da Los Angeles in direzione Wisconsin in cambio di Kareem Abdul Jabbar e Walt Wesley.
L’affare è fatto, il gigante di Harlem è arrivato nella città più glamour d’America, pronto per instaurare una dinastia che farà divertire tutti.

I primi anni in purple and gold saranno caratterizzati da tanti successi individuali, ma la squadra non riesce a decollare.
Dopo quattro stagioni traballanti, in cui i Lakers a momenti hanno espresso anche una discreta pallacanestro, nel 1979 arriva la svolta.
Prima, però, c’è un cambio ai piani alti: Jack Cooke vende la società al magnate dell’immobile e fuoriclasse del poker Jerry Buss, che trasforma le partite dei Lakers in un vero e proprio show.
Fin dal giorno 0 Mr Buss non promette di portare a Los Angeles soltanto il divertimento, ma anche tanti, tantissimi anelli.
In virtù di questa promessa, con la prima scelta assoluta del Draft 1979 i Lakers chiamano Earvin Johnson Jr, per tutti Magic, il miglior play di tutti i tempi.

Se l’intesa con Oscar Robertson aveva portato Milwaukee a vincere il primo storico titolo, la coppia Magic-Kareem regala ai Los Angeles Lakers la bellezza di cinque titoli, uno più divertente dell’altro.
Las Vegas, 1984.
Mentre lo showtime dei Lakers stava raggiungendo l’apice del successo, il 5 Aprile 1984 la NBA si svegliava con nuovo leader della classifica marcatori.
I Lakers erano impegnati nella partita contro Utah, giocata a Las Vegas per promuovere la creazione di una franchigia nella Città del peccato, quando il muro dei 31’419 punti di Wilt Chamberlain veniva abbattuto.
Sul finire della partita, abbondantemente pendente verso i gialloviola, Magic dall’angolo scodella in mezzo, lì dove c’è sempre il solito Kareem, che raccoglie il pallone, resiste al tentativo di rubata e lascia partire il suo tiro, quel gancio impossibile da stoppare, con la sua solita delicatezza disarmante.

La palla, che sembra piovere dal cielo, s’infila dolcemente nella retina. Il tabellino segna altri 2 punti, quelli del sorpasso.
Da quel momento, fino al 23 Aprile 1989, giorno della sua 1560esima, nonché ultima, partita di regular season segnerà altri 6’968 punti, chiudendo un cerchio fatto da 6 anelli, iniziato fra le strade di Harlem e proseguito per vent’anni fra Milwaukee e Los Angeles.


Lascia un commento