«Per acclamazione, Michael Jordan è il più grande cestista di tutti i tempi.»
Le parole che compaiono sul sito dell’NBA alla voce Michael Jordan sono una sentenza inequivocabile, l’uomo nato a Brooklyn è (o meglio, lo era fino all’avvento di LeBron James) considerato all’unanimità il volto mondiale della pallacanestro alla americana, targata NBA.
E pensare che lui, nel basket, nemmeno ci doveva essere. Già, perché da ragazzino Michael gioca a baseball e a football, ma la sua scarsa fisicità, che gli impediva di lanciare con forza la palla, e una lussazione alla spalla lo portarono ad abbracciare la palla a spicchi.
Da Brooklyn i Jordan si spostano a Wilmington, nel North Carolina, dove il piccolo Michael prenderà confidenza col basket liceale, alla Laney High School, casa dei Buccaneers di Coach Clifton “Pop” Herring.
E se Jordan è diventato celebre, tra le altre cose, per la sua etica del lavoro, in gran parte lo dobbiamo a Pop Herring, che nel lontano 1978 preferì inserire in prima squadra Harvest Leroy piuttosto che Michael Jordan a causa dei suoi 178cm, nonostante ritenesse che il futuro 23 dei Bulls fosse il miglior giocatore delle giovanili del liceo.
Ciò spinse MJ ad abbattere ogni limite fisico, atletico e mentale e, aiutato anche dai 12cm guadagnati in un anno, viene chiamato per la prima volta a vestire la maglia della prima squadra. I due anni passati ai Laney Buccaneers sono, da allora, iscritti nella memoria collettiva. Jordan ne mette 25 a sera con disarmante facilità. Ha tutti gli occhi puntati, lo vogliono tutti i college d’America e del mondo, ma lui sceglie North Carolina University di Dean Smith, uno dei padri fondatori della NCAA e del basket universitario.
Prima il College, poi l’NBA..
Dean Smith che allena a North Carolina dal 1961, ha l’arduo compito di trasformare un giovane di belle speranze in uno dei migliori prospetti in vista del Draft. Non è semplice, anche se MJ dimostra di avere mezzi tecnici e atletici clamorosi.
Il primo anno è abbastanza blando, di apprendimento. A North Carolina il leader tecnico è James Worthy, l’ala piccola dalle incredibili doti atletiche che andrà a comporre un incredibile terzetto ai Lakers con Magic e Kareem e MVP della finale NCAA 1982.

Proprio la finale del Campionato Universitario 1982 dà la prima scossa alla carriera di Michael Jordan: Worthy è l’MVP, ma il tiro decisivo per la vittoria lo mette proprio lui, il ragazzo nato a Brooklyn. Da quel giorno l’opinione pubblica cambiò totalmente idea su di lui: da giovane talento, forte ma non fortissimo, ad uno dei migliori prospetti universitari.
Nei due anni successivi Michael cresce a vista d’occhio, soprattutto in difesa, ma il sistema di gioco di Dean Smith implode.
North Carolina non ripeterà la straordinaria annata 1982, perché le straordinarie doti individuali del numero 23 vengono messe in secondo piano per garantire alla squadra un equilibrio tattico e tecnico. Jordan matura definitivamente, è il miglior giovane d’America insieme al giganteaco centro nigeriano di Houston: tale Hakeem Olajuwon.
Anni turbolenti
L’approdo di MJ in NBA è datato 19 Giugno 1984, al Madison Square Garden, i Chicago Bulls approfittano dell’incredibile chiamata dei Portland Trail Blazers e con la pick numero 3 si assicurano che il 23 di North Carolina vada a giocare da loro.
Intanto, ancora prima che Michael metta piede su un parquet NBA, la Nike, un’azienda di scarpe sportive nata vent’anni prima in Oregon e con un fatturato che supera di poco i 20 milioni di dollari, decide di scommettede due milioni sul ragazzo e, abbagliata dall’immenso potenziale nascosto in quel giovane, gli dedica una linea di scarpe: nasce la Air Jordan.
Tornando al campo, gli anni che vanno dal 1984 al 1986 sono di costruzione: i Bulls sono, da anni, una delle peggiori squadre della lega, reduci da due apparizioni ai playoff in quasi dieci anni.
La nuova proprietà targata Jerry Reinsdorf ha le idee chiare fin da subito: al general manager Jerry Krause spetta il compito di costruire una roster vincente intorno a Michael Jordan.
Ma dopo una prima stagione pazzesca, all’avvio del secondo anno, Jordan si rompe un piede e salta 64 partite.
I Bulls riuscirono a centrare i playoff, ma vengono immediatamente cancellati dai Boston Celtics di Larry Bird.
Il GM Krause dà la prima scossa alla squadra: licenziato in tronco Coach Stan Albeck per far posto a Doug Collins, affiancato da una vecchia conoscenza dei college americani: Morice Fredrick Winter, per gli amici semplicemente Tex, colui che trent’anni prima aveva reso grande Kansas State University col suo Triangle-Offense.
Nei tre anni con Doug Collins, Michael Jordan spicca il volo verso l’Olimpo del Basket, riempiendo la bacheca personale col suo primo MVP, col titolo di Difensore dell’Anno e per tre volte consecutive è il miglior marcatore della lega, a questi si aggiungono un MVP dell’All Star Game e due Slam Dunk Contest, di cui uno (il secondo, 1988) entrato nella leggenda grazie ad una schiacciata che a Sport Illustrated conoscono piuttosto bene.

Sotto la guida di Doug Collins i Bulls si spingono fino alla Finale dell’Est del 1989, ma il cammino di MJ si schianta contro i Detroit Pistons versione Bad Boys, che utilizzarono ogni mezzo (lecito o meno che sia, non ci interessa) pur di non concedere al 23 dei Bulls la sua classica penetrazione squarcia difese.
Le stagioni con Doug Collins in panchina furono le più redditizie dal punto di vista realizzativo per Michael, ma il tanto atteso anello, ancora non arriva.
Phil Jackson: l’uomo giusto al momento giusto.
Se oggi abbiamo questa considerazione di Michael Jordan, lo dobbiamo ad un solo uomo: un eccentrico figlio di due pastori protestanti del Montana, un bizzarro incrocio fra un buddhista e un hipster ma che conosce il basket forse come nessun altro, di nome Phil Jackson, per tutti Coach Zen.
Quando le strade di MJ e Coach Zen si incontrano, la situazione a Chicago è piuttosto delicata.

I Bulls sono forti, ma non fortissimi, hanno una signora squadra ma non riescono ad compiere l’ultimo grande passo per vincere il tanto agognato anello. Michael è croce e delizia.
Segna 35 punti ad allacciata di scarpe, è il miglior giocatore della lega su due lati del campo, ma non si fida né dei suoi compagni e né dello schema offensivo di Tex Winter: il triangle-offense, che per funzionare necessita di una discreta armonia fra i cinque giocatori in campo, nonché un bel giropalla.
E Jordan, di condividere il pallone con gli altri, non ne vuol sapere.
Il Three Peat
L’arrivo di Phil Jackson però, cambia qualcosa nella testa di Michael.
A Coach Zen non interessa imporre i propri ideali, non è un sergente di ferro, bensì un buddhista praticante, vicino alla controcultura degli USA degli anni ‘70. Con la tranquillità che lo ha sempre contraddistinto, in un anno è riuscito ad ottenere ciò che voleva, sfruttando il punto più debole di Michael Jordan.
Facendo leva sull’enorme fame di vittoria del suo numero 23, Phil lo ha convinto a sposare il Triangolo, eliminando ogni avversità fra lui e i suoi compagni.
Da quel giorno e per i successivi tre anni, nessuno sarà in grado di ostacolare la corazzata Chicago Bulls. Jordan ha iniziato a giocare con e per la squadra, si è abituato al triangolo e il 12 Giugno 1991, in casa dei Lakers, in quel Forum ad Inglewood che di anelli ne ha visti tanti, Michael Jordan diventa Campione NBA per la prima volta.
Il trionfo che spiana la strada verso la storia è racchiuso nell’abbraccio, in lacrime, al Larry O’Brien.

L’anno dopo, la storia si ripete, stavolta contro i Portland Trail Blazers. È back-to-back, ma il meglio deve ancora venire.
Nell’estate del ‘92, in vista delle Olimpiadi di Barcellona, per la prima volta il Comitato Olimpico Internazionale apre le porte ai cestisti professionisti.
Un appuntamento con la storia a cui, ovviamente, Michael Jordan non può mancare.

Otto anni dopo l’oro olimpico di Los Angeles, MJ torna in Nazionale, ma stavolta volano in Spagna con lui altri 10 dei migliori giocatori NBA più il miglior prodotto della NCAA. È il Dream Team, la squadra più forte di ogni epoca, ma questa è decisamente un’altra storia.
Archiviata la faccenda Olimpica piuttosto agilmente, è tempo di puntare al terzo anello.
Fra i Chicago Bulls e il titolo tenta di intromettersi l’MVP Charles Barkley coi suoi Phoenix Suns, ma come i Lakers prima e i Trail Blazers dopo, viene spazzato via dall’onnipotenza cestistica del numero 23.

1991, 1992, 1993. Tre anni, tre titoli. I Chicago Bulls sono campioni NBA per la terza volta consecutiva, la storia è stata scritta.
«Vincere tre titoli di seguito era un mio obiettivo, perché né Thomas, né Magic, né Bird ce l’hanno fatta. Non sto dicendo di essere più forte di loro, ma il fatto che solo io ci sia riuscito vorrà dire qualcosa.»
Dirà MJ dopo aver cancellato i Suns con 41 punti di media nelle 6 partite di Finals.
Un fulmine a ciel sereno.
Mentre la stagione successiva è alle porte e i Bulls si preparano per conquistare il quarto titolo, una sciagura si abbatte su MJ.
Il 23 Luglio 1993, James Jordan, padre di Michael, viene ucciso da due criminali locali durante un sonnellino a bordo della sua Lexus.
Poco più di due mesi dopo, il 6 Ottobre 1993, in conferenza stampa, Michael Jordan gela il mondo, annunciando il suo ritiro dal basket.
Il dolore per la perdita dell’amato padre, la consapevolezza di essere arrivato all’apice della carriera e di non dover dimostrare più nulla a nessuno lo portano a riporre la palla a spicchi nell’armadio ad appena trent’anni.
D’ora in poi, il suo sport non sarà più il basket, ma il baseball. Vuol rendere onore alla memoria del compianto padre, grande appassionato di baseball.

È la prima volta che un atleta di quel livello decide di mollare tutto all’improvviso, tant’è che intorno a questo strano ritiro si sviluppò una bizzarra teoria del complotto: non è un ritiro volontario, bensì una sospensione decretata dalla NBA, legata al vizio delle scommesse del numero 23.
In realtà la motivazione era piuttosto semplice: la morte del padre aveva fatto perdere a Michael tutta la voglia di giocare a basket.
D’improvviso è sparita quella fame di vittoria che lo aveva contraddistinto per dieci anni.
Adesso c’è solo e soltanto il baseball e l’obiettivo è entrare nella Major League Baseball.
Purtroppo, per lui e per il basket, la sua carriera nel baseball dura appena 388 giorni.
Non riesce a sfondare, se non nel merchandising. Il baseball non è il suo sport.
Repeat: la leggenda.
“I’m Back”
Con tre parole, tanto semplici quanto cariche di significato, dopo un allontanamento volontario di diciotto mesi, Michael Jordan annuncia di essere tornato.
Il richiamo del basket era troppo forte.

L’obiettivo è tornare a vincere, di nuovo, come ha sempre fatto, ma in una nuova veste.
Abbandona il suo storico 23 per far spazio al 45, il suo reale numero preferito. Un segnale forte, di rottura col passato.
È il 18 Marzo 1995, mancano 40 giorni ai playoff e i Bulls tentano l’impresa, guidati da un gigantesco Scottie Pippen. Michael è tornato, ma non è più quello di prima.
Non ha più l’agilità di un volta e soprattutto, stare due anni senza giocare lo ha arrugginito in tutto.
Ai playoff non vanno oltre il secondo turno: Orlando cancella i tre volte campioni espugnando due volte Chicago.
Dopo troppi errori decisamente non da Michael Jordan durante la serie contro Orlando, Nick Anderson, guardia dei Magic, gli lanciò una provocazione sostenendo che il nuovo numero 45 fosse un gran giocatore, ma non quanto il vecchio numero 23.
Ecco, se c’è una cosa da non fare con Jordan è stuzzicarlo.
Archiviata la sconfitta contro Orlando, MJ si riprende il suo 23 e Jerry Krause piazza il colpaccio: per sopperire alla mancanza di rimbalzisti, da San Antonio arriva genio e sregolatezza per eccellenza, Dennis Rodman, la follia fatta persona.
Le caratteristiche del nuovo numero 91 sono piuttosto particolari: segna pochissimi punti, sforna pochi assist, tira malissimo i liberi, è tremendamente eccentrico ma difende come pochi altri e, nonostante tocchi appena i 2 metri, arriva su ogni rimbalzo.
I rimbalzi di Dennis Rodman, la difesa di Scottie Pippen e Ron Harper, i punti dalla panchina di Steve Kerr e Toni Kukoc, uniti alla fame di vittorie di MJ, fanno volare i Bulls, che in RS vincono 72 partite su 82.
Ai playoff la storia non cambia, 3-0 ai Miami Heat, 4-1 ai New York Knicks e 4-0 agli Orlando Magic.
Michael Jordan non è più quello di prima, è addirittura più forte.
Alle Finals ci sono i Seattle Supersonics di Shawn Kemp, Nate McMillan, Gary Payton e Sam Perkins (che giocava a North Carolina con Jordan). Risultato finale: 4-2 per Chicago, Michael Jordan MVP e corsa al Three Peat ricominciata.

Jordan scoppia in lacrime dopo la vittoria del quarto titolo: è il primo senza l’amato padre.
Altro giro, altro titolo, stavolta contro Utah, contro Karl Malone e John Stockton.
Proprio contro Utah, MJ dimostrò di essere qualcosa in più di un semplice essere umano.
Alla vigilia di Gara 5, da giocare a Salt Lake City con la serie in perfetta parità, Michael accusa un intossicazione alimentare che lo tiene immobile a letto dalla notte fino ad un’ora prima dell’arrivo al Delta Center.
Di fronte ai ventimila di Salt Lake City, MJ fa cenno a Phil Jackson di farlo giocare, nonostante le condizioni fisiche pietose.
Coach Zen, che lo conosce fin troppo bene, ha già capito tutto. Dopo un primo quarto orribile, Michael sale in cattedra: 35 punti più la tripla decisiva, totale 38 punti, 7 rimbalzi, 5 assist e 3 recuperi in 44 minuti. Chicago batte Utah 90 a 88. È il Flu Game, quando MJ ha sfidato le leggi della natura umana e ha vinto, come al solito.

Nonostante le precarie condizioni fisiche, MJ ne mette 38 contro Utah.
Si torna a Chicago, giusto per festeggiare il titolo. Dopo il 1996, anche il 1997.
Jerry Krause che vorrebbe smantellare la squadra dopo 5 titoli, si deve arrendere al numero 23. Un’ultima stagione, tutti insieme, per fare la storia.
E la storia si fa dopo 62 vittorie in RS, dopo aver battuto in fila New Jersey Nets, Charlotte Hornets e Indiana Pacers.
Il momento è a venti secondi dal termine di Gara 6 di Finals, ancora contro Utah.
È il 14 Giugno 1998. I Jazz sono sopra di un solo punto, 86 a 85, ma hanno la palla in mano. Karl Malone riceve palla in post basso dal solito Stockton, ha MJ che gli gravita attorno e, quando meno se lo aspetta, His Airness gli strappa la palla di mano.
Tutti sanno cosa sta per succedere.
Jordan recupera il pallone e si avvicina lentamente al canestro, ha il cronometro dalla sua parte. Punta Byron Russell e gli fa un crossover. Russell vola a terra, Jordan ha tutto lo spazio per prendersi il più classico dei tiri, l’ultimo della sua carriera con la maglia dei Chicago Bulls.

Palleggio, arresto, tiro e… MICHAEL JEFFREY JOOORDAAAAN


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