A Rio de Janeiro, ad appena 49 anni, muore Manoel Francisco dos Santos, detto Garrincha, l’ala destra del Grande Brasile del 58 e 62.
Garrincha nacque nel 1933 a Pau Grande in condizioni di pietosa povertà e visse un’infanzia ai limiti del selvaggio. Fin da bambino divise il suo tempo fra la natura, cacciando gli esemplari di garrincha, un piccolo passero piuttosto comune in quella zona, e il calcio, praticato dappertutto.
Per curare i suoi problemi fisici (strabismo, spina dorsale deformata, bacino sbilanciato, 6 centimetri di differenza fra le due gambe e affetto sia da valgismo che da varismo alle ginocchia) fin da bambino si vedeva somministrare una mistura a base di cachaça (per intendersi, il distillato alla base dell’odinerna Caipirinha) e già a 10 anni era dipendente dal fumo.
Gli fu sconsigliato di giocare a calcio, ma fece delle sue gambe un’arma potentissima per il suo dribbling caratteristico: fuggiva sulla destra, puntava il difensore, gli arrestava di fronte e in un lampo, con un destra-sinistra, lo disorientrava, prima di fuggire verso destra, lasciandolo sul posto. Per Garrincha il dribbling è un’arte, un diletto. Spesso, dopo aver saltato un avversario, lo puntava di nuovo e ancora una volta fuggiva sulla destra.

A 16 anni, al primo provino col Botafogo, folgorò tutti. Sembrava uno scherzo della natura, è storto nell’andatura e con quel fisico non può durare a lungo nel mondo del pallone, ma la leggenda narra che dopo aver saltato quattro o cinque volte consecutive il grande Nilton Santos, il mitico terzino futuro bicampione del mondo, abbia fortemente spinto la dirigenza a tesserare quell’uccellino con le gambe deformi.
Per dodici anni rimase al Botafogo, con cui segnò 102 reti in 325 incontri, ma la sua celebrità è legata indissolubilmente alla Seleção, il cui celebre 4-2-4 “Didì, Vavà, Pelè, Garricha” trionfò meravigliosamente ai Mondiali di Svezia ‘58, cancellando il Maracanazo.
Dopo 12 stagioni clamorose al Botafogo, il fisico lo abbandona rapidamente. Nonostante sia poco più che trentenne, non ha più lo sprint di un tempo e l’agilità dei tempi migliori è solo un lontano ricordo. Dopo aver girovagato per il Brasile, nel 1973 appende ufficialmente gli scarpini al chiodo, dopo aver giocato una ventina di partite in dieci anni da quando ha lasciato il Botafogo.
Garrincha, che al calcio deve tutto, dal giorno del ritiro passa 10 anni a livello amatoriale, perché senza pallone non riesce a starci, ma il 20 Gennaio 1983, nel degrado e nella povertà più assoluta, il suo cuore, consumato dall’alcool e dal fumo, smise di battere.
Da quel giorno riposa nel cimitero di Raiz da Serra e sulla sua tomba ardono perennemente sette candele. Sette come numero che rese immortale Manoel Francisco dos Santos, detto Garrincha.


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