La resilienza è la capacità di far fronte ad un evento traumatico in maniera positiva: in sintesi Kawhi Leonard, il cyborg dell’NBA moderna.
Facciamo un passo indietro al 18 Gennaio 2008, a Compton, periferia sud di Los Angeles. Diversi colpi di pistola raggiungono Mark Leonard, 43 anni e padre di cinque figli: quattro ragazze e un ragazzo, Kawhi. I due uomini di casa hanno un rapporto speciale, spesso Kawhi lo aiuta nel lavoro all’autolavaggio, dove si trova Mark anche quel giorno di Gennaio. Due spari squarciano la giornata e la vita della famiglia Leonard.
Kawhi è un ragazzo come tanti, ama il basket e sorride sempre. Uno dei tanti teenager californiani che sogna di mettersi quell’anello al dito. La vita del ragazzo nato a Riverside cambia totalmente. Scordatevi l’allegria e i sorrisi, largo ad un’indifferenza totale.
Da quel giorno, il giovane Kawhi passerà giorno e notte ad allenarsi per un obiettivo: il draft NBA. Finita l’High School in quel di Los Angeles, passa alla San Diego State: due anni gli bastano per candidarsi ad un posto nella National Basket Association.

23 Giugno 2011: a Newark va in scena il draft. È un contenitore di talenti clamoroso, forse il migliore del decennio. Ci sono tante matricole interessanti: su tutti Kyrie Irving e Klay Thompson, che non a caso saranno rispettivamente prima e undicesima scelta assoluta. Dopo i gemelli Markieff e Marcus Morris, gli Indiana Pacers chiamano il 19enne di Riverside come quindicesima scelta.
A Indianapolis, però, dura veramente poco: viene infilato nella trade che porta George Hill dagli Spurs ai Pacers. Kawhi Leonard è ufficialmente approdato in NBA a 1300 miglia da casa.
Fin dal primo giorno trascorso in Texas emerge un particolare: le mani misurano 25 cm di lunghezza e 28 di larghezza. Numeri degni di Shaquille O’Neal, a cui Kawhi rende una quindicina di centimetri in altezza e quaranta chili di peso.
L’anno da rookie va alla grande: è un difensore clamoroso e un attaccante formidabile. Inizia a prendere confidenza col parquet dopo l’infortunio di Manu Ginobili inizialmente come guardia, poi con l’arrivo di Danny Green si sposta definitivamente ad ala piccola.
E qui inizia la sua ascesa: gli sfugge il rookie solo perché Irving è di un altro pianeta, ma gli Spurs puntano in alto. Oltre al già citati Kawhi, Ginobili e Green, si aggiungono Tony Parker e il veterano Tim Duncan. A San Antonio c’è anche un po’ di Italia: da San Giovanni in Persiceto arriva Marco Belinelli, l’unico campione del Three-Point Shootout proviente dal Belpaese.
L’anno buono è il 2014: Belinelli è caldo come una stufa (per citare Flavio Tranquillo), Tim Duncan è immortale e Kawhi è inarrestabile. Per vincere il titolo serve abbattere due corazzate: gli Oklahoma City Tunder dell’MVP Kevin Durant (a detta di tanti, il miglior attaccante di sempre) per decidere chi sfiderà i Miami Heat di Chris Bosh, Dwayne Wade, Ray Allen e, soprattutto, LeBron James.
Il 2014, però, è l’anno di The Claw, Kawhi. La marcia silenziosa del ragazzo di Riverside porta i suoi Spurs fino all’ultimo atto.
I dieci giorni che vanno da Gara 1 a Gara 5 saranno la consacrazione definitiva di Kawhi Leonard: il 15 Giugno 2014, a 22 anni e 350 giorni, poco meno di 3 anni dopo il draft, viene eletto MVP delle finals.
Lebron è annullato, Miami cercava il three peat, ma sulla loro strada ci sono i San Antonio Spurs.

A San Antonio resterà altri 4 anni, dove otterrà risultati straordinari a livello personale (due volte difensore dell’anno, una convocazione dopo l’altra per l’All Star Game, tre volte consecutive nel Quintetto Difensivo). Dopo 7 anni passati in Texas, nell’estate del 2018 prepara le valigie per il Canada: lui e Danny Green andranno a Toronto in cambio di DeMar DeRozan, Jakob Poltl ed una scelta protetta al Draft 2019. I Raptors, forse per la prima volta nella storia, fanno sul serio. Nel mirino c’è l’anello, da strappare all’onnipotenza di Golden State capaci di trionfare tre volte negli ultimi quattro anni.
I Raptors hanno messo su un roster di tutto rispetto: hanno Serge Ibaka, Fred VanVleet, Pascal Siakam, Kyle Lowry, OG Anunoby e Marc Gasol. A questi si aggiungono Kawhi Leonard e Danny Green.
In RS vanno a mille: secondo posto in Conference dietro allo strapotere dell’ MVP Antentokoumpo e dei suoi Bucks. Ai playoff, però, la musica cambia: non sono secondi a nessuno. Al primo turno i Raptors spazzano via con un secco 4-1 gli Orlando Magic. La semifinale della Eastern Conference si rivela più impegnativa del previsto: ci sono i 76ers di Jimmy Butler, Joel Embiid e Ben Simmons. Si parte subito in quinta, nemmeno in quarta: in gara 1 Kawhi ne mette 45 e regala la prima vittoria ai suoi. La storia NON si ripete né in Gara 2 né in Gara 3: un mostruoso Jimmy Butler porta la serie a Philadelphia. Una vittoria tira l’altra: Gara 4 e Gara 5 vanno a Toronto, mentre Gara 6 va ai 76ers. Essere sul 3 pari significa una cosa sola: GARA 7, chi vince affronta Milwaukee in finale di Conference. Raptors e 76ers si erano promessi la guerra: e guerra sia. Un canestro dopo l’altro porta gara 7 sul 90 pari a 4 secondi dalla fine. Soltanto un colpo di genio può evitare l’Overtime.
Rimessa dal lato sinistro di Gasol, Kawhi sfodera l’artiglio e butta un occhio verso l’area. No, lì non ci si può andare. Ha la destra libera, corre verso l’angolo, si libera di Ben Simmons, si prende gli ultimi 10 centimetri di campo e sulla sirena spara il tiro che può decidere gara 7. Mentre Embiid prova la stoppata frana addosso a Kawhi ma intanto il pallone rimbalza sul ferro. Sono secondi terribili: tutta la Scotiabank Arena è col fiato sospeso: dopo tre rimbalzi, ecco quello giusto. La retina si muove, tutto il Canada è in festa. Il buzzer beater di Kawhi Leonard porta i Toronto a giocarsi un posto alle finals contro Giannis Antetokounmpo e i suoi Bucks.

Si inizia a Milwaukee, dove i 31 di Leonard sia in Gara 1 che in Gara 2 non basteranno per portare la serie in Ontario. Qui subentra un piccolo problema per i Bucks: nel vocabolario di Kawhi Leonard non esiste la parola arrendersi.
La resilienza, un termine di cui oggi se ne fa un uso fin troppo esteso, trionfa ancora. 4 vittorie consecutive per entrare nella storia. Per la prima volta una franchigia canadese arriva fino all’ultimo atto, fino alle NBA Finals.
Dall’altra parte degli USA, sulla costa Pacifica, viaggia col vento in poppa il veliero dei Golden State Warriors, che dopo la logorante serie persa contro Cleveland nel 2016, ha puntellato il roster con un certo Kevin Durant, che si aggiunge ai già amalgamati Steph Curry, Klay Thompson, Andre Iguodala e Draymond Green.
Alle finals, però, i campioni in carica dovranno fare a meno di KD: uno stiramento al polpaccio patito contro Houston lo mette KO per le finali di conference e per le prime 4 gare contro Toronto.
I Raptors volano sulle ali di Kawhi e vincono Gara 1, mentre Gara 2 va agli Warriors.
Si cambia casa: Gara 3 e Gara 4 si giocano dall’altra parte degli USA: all’inferno della Oracle Arena. È il momento di fare la storia: la serie si decide nelle due gare centrali: il three peat di Curry e compagni o il primo titolo dei Toronto Raptors, guidati da un Kawhi Leonard in grande spolvero e da un Pascal Siakam onnipresente sotto il tabellone.
Entrambe le gare giocate ad Oakland vedono protagonista il Cyborg californiano: è semplicemente infermabile: 30 punti alla prima, 36 alla seconda. A questi si aggiungo 7 rimbalzi e 6 assist di Gara 3 e 12 rimbalzi e 2 assist due giorni dopo.
Ha una costanza di rendimento stratosferica.
Siamo appena in Gara 5 ma è già il momento del dentro/fuori. A sorpresa, c’è Durant. No, non è già tornato in forma, un mese lontano dal parquet non è una cosa da poco. I primi dieci minuti sono da alieno: 11 punti con 3/3 dall’arco. Sembra che non si sia mai fermato, ma dopo 12 minuti il tendine d’achille fa crack. L’MVP delle due finals precedenti resterà, se tutto va bene, lontano dal parquet per almeno un anno. Se prima le speranze di fare il Three Peat erano poche, adesso sono pochissime. Nonostante lo shock e i 26 punti di Kawhi, Golden State porta la serie fino a Gara 6. 3-2 per Toronto significa che anche Gara 6 sarà decisiva.
L’equilibrio regna sovrano fino a 2:22 dalla fine del terzo quarto.
Curry lanciato in contropiede serve Klay Thompson che vola al ferro: Danny Green tenta la stoppata, ma lo sbilancia e basta. Klay cade male, il ginocchio sinistro fa un movimento innaturale e il silenzio conquista la Oracle Arena. Il numero 11 è stramazzato al suolo, si tiene il ginocchio e si contorce dal dolore. Il cronometro segna 2 minuti e 22 secondi al termine del terzo quarto. Le speranze di vittoria vanno istantaneamente in frantumi. La diagnosi non lascia scampo a nessuno: rottura del crociato. Giusto per la cronaca: complice una ricaduta, Klay Thompson non mette piede sul parquet da quel giorno.
Senza KD e senza Klay Thompson è praticamente impossibile ri-agguantare i canadesi: i 22 punti, 6 rimbalzi e 3 assist di The Claw bastano e avanzano. Alla Oracle Arena di Oakland, dall’altra parte della baia di San Francisco, i Toronto Raptors diventano per la prima volta nella loro storia i campioni della National Basket Association.

L’MVP di queste meravigliose finals poteva essere solo lui, il silenzioso ragazzo con le treccine dalle mani enormi. Il ragazzo nato a Riverside e cresciuto nella tremenda periferia di Los Angeles ha scritto un’altra pagina del magnifico libro della storia del basket.
Arrivato alla soglia dei 30 anni e dopo una folgorante stagione passata in Canada, ha deciso di tornare a casa, nella sua Los Angeles, sponda Clippers, convicendo anche Paul George, per puntare ad un altro, storico, Larry O’Brien.


Lascia un commento