19 Maggio 1984: l’Italia batte l’Unione Sovietica e si aggiudica il Mondiale del ’90.
56 anni dopo, tocca di nuovo a noi. Si parte a San Siro, modernizzato per l’occasione, l’8 Giugno 1990.
E siccome siamo il paese di Michelangelo, di Leonardo e del Brunelleschi, ci superiamo dal punto di vista architettonico: vengono tirati su due stadi ex novo: Renzo Piano regala a Bari il meraviglioso San Nicola, mentre a Torino il vecchio Comunale verrà affiancato dal meno bello Delle Alpi, sulle cui ceneri sorgerà vent’anni dopo lo Juventus Stadium. Altri due, l’Olimpico di Roma e il Ferraris di Genova, vengono coperti, mentre a San Siro viene inserito l’incredibile terzo anello. Tutti gli altri (Firenze, Bologna, Verona, Napoli, Udine, Palermo, Cagliari) vengono sistemati.

Sarà, come da tradizione, un mondiale sobrio ed elegante, senza però rinunciare all’immensa qualità di una rassegna iridata. Siamo il paese della musica: abbiamo tanti di quei cantautori che c’è l’imbarazzo della scelta per comporre la colonna sonora. Potremmo affidarla a chiunque, abbiamo Baglioni, Dalla, Morandi, De Gregori, ma alla fine la spunta una coppia atipica: Edoardo Bennato e Gianna Nannini ci regalano Notti Magiche.
Il Mondiale, però, ha un grosso antefatto. No, niente calcioscommesse, per una volta nessuno è finito dietro le sbarre per aver truccato delle partite.
Il 18 Maggio 1990 Baggio, giocatore simbolo della Fiorentina e stella del mondiale, firma con la Juventus. In città scoppia la guerriglia che arriva fino a Coverciano, dov’è in ritiro preparatorio la nazionale di Vicini. Gli Azzurri lasciano così la caotica Firenze in guerra per approdare a Marino, nel cuore dei castelli romani.
Come detto il Mondiale inizia a Milano, ma noi giochiamo a Roma e, se tutto va come deve andare, resteremo nella capitale fino alla fine.
Si parte dunque a Roma, alle ore 21 di sabato 9 Giugno, davanti a 75mila persone contro l’Austria.
Noi siamo giovani e belli, loro sono tremendamente solidi. Ad un quarto d’ora dalla fine siamo 0-0 dopo due palle gol fallite. I titolari davanti sono Carnevale, punta del Napoli campione d’Italia, e Vialli, fresco vincitore della Coppa delle Coppe con la Samp. Contro l’Austria nessuno segna e Vicini mischia le carte per il rush finale: fuori Carnevale e dentro l’uomo della provvidenza: Totò Schillaci, un palermitano di 1,75 che sembra tutto tranne che un centravanti. Tre minuti dopo Vialli mette un gran pallone in mezzo e fra i due centrali austriaci s’infila lui che di testa segna e regala agli azzurri i primi tre punti. L’Olimpico esplode, l’Italia è in festa. Dai balconi sventolano le bandiere tricolori: è il nostro mondiale.

Cinque giorni dopo, sempre a Roma, arrivano gli USA. Stavolta, però, la risolve Giannini in dieci minuti. Donadoni serve Vialli al limite che la lascia sfilare per Giannini: il Principe salta un difensore e col mancino regala la seconda vittroria al popolo azzurro. Altro giro altra festa.
Ma Baggio? L’uomo più atteso? 0 minuti in 2 gare, Vicini gli preferisce Vialli, l’uomo che l’ha portato fin lì. Carnevale delude e Schillaci è insostituibile, mentre per Vialli è una questione di cuore e si adatta maggiormente allo stile di gioco del mister, che se lo porta dietro dall’Under 21. Contro la Cecoslovacchia, però, accanto a Totò gioca Roberto.
Il pubblico lo chiamava, lo invocava. Passiamo avanti dopo dieci minuti: Giannini prova l’eurogol di sinistro, colpisce male, la palla prende un rimbalzo strano e finisce sulla testa, tanto per cambiare, di Schillaci. È in stato di grazia, secondo gol, entrambi di testa. L’Olimpico è una bolgia dantesca: settantamila tricolori sventolano sulle tribune. Ma il meglio deve ancora venire: nella ripresa Baggio s’inventa un gol che, onestamente, poteva segnare solo lui. Prende palla a centrocampo, scambia col solito Giannini, e vola verso la porta. È spinto dai settantamila sugli spalti, vola leggero come una piuma, salta uno, due, tre avversari e appoggia delicatamente in fondo alla rete.

È nata una coppia da sogno: la fantasia straripante di Roberto e la fame di gol di Totò. L’Italia, a questo punto, inizia a sognare. Il tricolore è dappertutto, si respira un clima di festa, è un’estate italiana. La colazione ha un sapore diverso, si vive partita per partita, il lavoro non pesa più: c’è solo la Nazionale, meravigliosamente raccontata dalla straordinaria voce di Bruno Pizzul.
Si resta a Roma: c’è l’Uruguay che viene liquidato con un secco 2-0: apre il solito Schillaci, che ormai non fa più notizia, e chiude di testa Aldo Serena.

Ai quarti c’è l’Eire di Jackie Charlton, che quattro anni dopo ritroveremo ai gironi negli USA. Gran botta di Donadoni da fuori, Pat Bonner respinge corto e indovinate chi c’è in agguato: sì, proprio lui, Totò Schillaci. Gli Azzurri volano, Baggio inventa, Giannini e Donadoni fanno quello che vogliono in mezzo, Zenga para di tutto e Schillaci finalizza.
L’ultimo ostacolo da abbattere prima della finalissima si chiama Diego Armando Maradona.
C’è un piccolo grande problema: Italia-Argentina non si gioca a Roma come previsto, ma a Napoli, nello stadio di Diego. A questo si aggiungono due piccoli (piccoli si fa per dire) dettagli: il Napoli è campione d’Italia grazie a Maradona e Diego stesso spinge i suoi tifosi a sostenere l’albiceleste. In tanti danno retta al cuore, ma tanti altri seguono il Pibe.
A questo punto, la nostra memoria ci riporta a otto anni prima, al Sarrià di Barcellona, quando Bearzot ingabbiò Maradona affidandolo a Claudio Gentile. Vicini non segue le orme del Vecio e non prepara nulla: siccome Diego attacca il centro sinistra, lo marca Bergomi. L’atmosfera non è paragonabile a quella di Roma: non ci sono più settantacinquemila persone sugli spalti col tricolore in mano, ce ne sono 60 e non tutti tifano Italia, anzi…
Partiamo forte come sempre: meno di venti minuti e siamo in vantaggio: sombrero di Giannini, Vialli scarica al volo in porta, respinta corta di Goycochea, TIBIA del solito Totò e 1-0. Non ci crede nemmeno lui.
Possiamo permetterci, con la squadra che abbiamo, di gestire il pallone senza troppi problemi. Abbiamo una difesa impenetrabile e un portiere straordinario, fino a quel momento nessuno ci aveva fatto gol e quell’Argentina non fa tremare dalla paura.
Al 67′ l’Argentina pareggia in maniera piuttosto surreale: Maradona libera Olarticoechea sulla sinistra che sforna un cross in mezzo verso Caniggia. Zenga, che fino a quel momento aveva disputato un mondiale straordinario, esce alla canis cazzumm, per usare un latinismo. Caniggia, lasciato lì da Ferri, la tocca appena di testa e non imprime nemmeno grande potenza, ma basta e avanza per fare 1-1.

Si va ai supplementari con la situazione completamente ribaltata: gli argentini sono padroni del gioco e del campo, mentre gli azzurri sono intimoriti e sfiduciati.
Vicini pecca di testardaggine: sa benissimo che Baggio può risolvere la partita da un momento all’altro ma lo lascia in panchina per settantacinque, lunghissimi, minuti. Al suo posto gioca il solito Vialli che però incide veramente poco.
Durante l’overtime succedono praticamente due cose: Baggio sforna una punizione meravigliosa che solo quel Goycochea in stato di grazia può togliere dall’incrocio e il roccioso centrale argentino Ricardo Giusti sono i viene espulso per una gomitata data al solito Baggio.
Si va ai rigori, dove volevano loro, perchè dagli 11 metri sono i favoriti.
El Vasco Sergio Goycochea, che nemmeno doveva giocarlo il Mondiale, ha una teoria tutta sua per parare i rigori: se il pallone è negli ultimi 60 centimetri prima del palo, il rigore è imparabile. Se è nel resto della porta, si può parare.
Gli argentini vanno a segno ripetutamente, così come Baresi, De Agostini e Baggio. Tocca a Donadoni, ma il suo tiro NON è nei 60 centimetri finali e quindi lo para. Maradona, ovviamente non sbaglia, mentre Serena calcia nuovamente fuori dai 60: parata.

Martedì 3 Luglio 1990, stadio San Paolo. Sono finite le notti magiche. È finita l’estate Italiana che il paese aspettava da anni. Quei rigori, quei maledetti rigori, che ci inseguiranno per otto anni, da Napoli a Parigi, passando per Pasadena.
Resta da giocare la finalina contro l’Inghilterra in quel di Bari: segneranno Baggio e il solito Schillaci, per una ola finale dal sapore agrodolce.
La finalissima di Roma vede contrapporsi l’Albiceleste di Maradona a Die Mannschaft, la Germania di Lothar Matthäus, per la prima volta riunificata. Il remake di quattro anni prima: stavolta però il pendolo si sposta verso i tedeschi. Non è una gran partita, entrambe sanno di non essere al top della forma e per questo stanno chiuse sulla difensiva. La Germania è aggressiva, ma fa un possesso palla sterile e fine a sé stesso. La parità si rompe a cinque dalla fine: Sensini abbatte Völler in area in maniera, stando agli argentini, piuttosto discutibile. Dopo mille polemiche e il rosso rifilato a Dezotti, Brehme non sbaglia dagli 11 metri. La Germania è Campione del Mondo per la terza volta dopo il 1954 e il 1974.
Era il primo mondiale di Baggio e Maldini.
Era il mondiale di Totò Schillaci che per poco non vince il pallone d’oro sulle orme di Paolo Rossi.
Era il mondiale di tutti noi, di un popolo unito da un unico colore. Il mondiale che ci ha regalato l’ultimo grande 45 giri della musica italiana, che a distanza di trent’anni ancora risuona nelle case italiane. Il Mondiale delle Notti Magiche, sotto il cielo di un’estate italiana.


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